Mussolini scelse Trieste per liberarsi dall’ombra dell’inquieto D’Annunzio DIRETTA STREAMING DALLE 11 DI DOMENICA

Si conclude domani il ciclo di lezioni “La Storia nell’arte”. Protagonista dell’ultimo appuntamento, alle 11 al Teatro Verdi di Trieste, sarà Emilio Gentile che parlerà su “Tra Trieste e Fiume” partendo da un disegno di E. Anichini sul Sesto centenario dantesco. La rassegna, organizzata dagli Editori Laterza con il Comune di Trieste, Il Piccolo, Acegas Amga del gruppo Hera, Fondazione CRTrieste, può essere seguita in streaming sul sito www.ilpiccolo.it
di EMILIO GENTILE
Nei giorni della marcia su Roma, Gaetano Salvemini, storico e antifascista, era a Parigi. Commentando il 3 novembre 1922 l'avvento di Mussolini al potere, in una lettera al suo amico Ernesto Rossi, lo storico pugliese espresse gravi preoccupazioni per quel che il duce del fascismo avrebbe fatto alla guida dell'Italia. In politica estera, lo preoccupava la questione di Fiume e le relazioni con la Jugoslavia. In politica interna, le previsioni erano ancor più pessimiste. «Siamo nella luna di miele mussoliniana», ironizzava Salvemini, ma presto sarebbero sorte le difficoltà reali. Lo storico sperava però in un briciolo di saggezza del nuovo presidente del Consiglio, che definiva «meno pazzo dei giovinetti fascisti».

Ma fuori del fascismo, aggiungeva subito Salvemini, «c'è D'Annunzio, che detesta Mussolini; è il più pazzo di tutti, è il vero direttore spirituale dei fascisti, e aspetta l'ora di buttar giù Mussolini facendo il superfascista e la supercamicia nera. D'Annunzio si fa avanti a fare il supermussolini, e prende il suo posto. Mussolini si stroncherà sul problema adriatico».
Può forse destare oggi stupore che un osservatore acuto ed esperto come Salvemini attribuisse tanta pericolosità a Gabriele D'Annunzio dopo la marcia su Roma, considerandolo addirittura «il vero direttore spirituale dei fascisti», un rivale di Mussolini, pronto a prendere il posto del duce atteggiandosi a "supermussolini". Se ci trasferiamo con la mente nel tempo in cui Salvemini esprimeva questo giudizio, allo stupore si sostituisce la constatazione che la pericolosità attribuita a D'Annunzio derivava dalla convinzione di Salvemini che il poeta fosse effettivamente un "superfascista", una "supercamicia nera". Ma era una convinzione errata.
Infatti, nel momento in cui il partito fascista, con il suo duce, prendeva il potere, il poeta soldato non solo aveva smesso qualsiasi militanza politica, ma non era fascista né aveva alcun seguito fra la massa dei fascisti: mentre molti erano i fascisti, e specialmente i capi del fascismo intransigente, come Roberto Farinacci, che diffidavano di D'Annunzio e sospettavano che tramasse contro il fascismo. Tali sospetti parevano confermati dal fatto che gran parte dei seguaci del poeta nell'impresa fiumana, rimasti a lui fedeli, militavano nell'antifascismo, come Alceste De Ambris, l'autore della Carta del Carnaro, che avrebbe dovuto essere la costituzione dello Stato libero di Fiume. Inoltre, i fascisti intransigenti e lo stesso Mussolini erano a conoscenza del tentativo fatto nelle settimane precedenti la marcia su Roma, dal presidente del Consiglio Facta e da altri maggiorenti liberali, come Orlando, di organizzare a Roma per la celebrazione del 4 novembre una grande manifestazione all'Altare della Patria, dove il poeta avrebbe avuto il ruolo di grande pacificatore nazionale, con lo scopo di bloccare l'ascesa del fascismo al potere.
Il tentativo era fallito, perché alla fine D'Annunzio aveva rifiutato, scrivendo a Facta il 26 ottobre di non poter recarsi nella capitale per la solenne celebrazione perché ammalato. Ma non per questo il poeta era disposto ad appoggiare la conquista fascista del potere. Tanto che al momento della mobilitazione delle squadre fascista per la marcia su Roma, Mussolini stesso, il 28 ottobre, scriveva a D'Annunzio: «Non vi chiedo di schierarvi al nostro fianco - il che ci gioverebbe infinitamente: ma siamo sicuri che non vi metterete contro questa meravigliosa gioventù che si batte per la vostra e nostra Italia». E ancora, la notte del 28 ottobre, vinta ormai la sfida con lo Stato liberale, il duce delle camicie nere scriveva al suo "caro Comandante" per annunciare la consacrazione del trionfo fascista: «L'Italia di domani avrà un governo. Saremo abbastanza discreti e intelligenti per non abusare della nostra vittoria. Sono sicuro che Voi la saluterete come la migliore consacrazione della rinata giovinezza italiana. A Voi! Per Voi!».
Se errata era la convinzione di Salvemini sulla pericolosità di D'Annunzio come un "supermussolini" che attendeva di sostituire il duce al potere, era tuttavia vero che fra il poeta e il duce delle camicie nere vi era una rivalità. O, per meglio dire, vi era stata una rivalità nei tre anni precedenti, dal 1919 al 1921, quando, nell'apparente schieramento sul fronte comune della rivoluzione italiana per la difesa della "vittoria mutilata", per la lotta al bolscevismo, per la liquidazione della vecchia classe dirigente e la conquista del potere da parte delle nuove aristocrazie dell'interventismo e del combattentismo, in realtà D'Annunzio e Mussolini furono rivali e antagonisti nella gara per conquistare il ruolo di capo e duce della rivoluzione italiana. D'Annunzio realizzò a Fiume la sua ambizione di capo della rivoluzione italiana. Mussolini invece, come vedremo nel corso della lezione, scelse Trieste per iniziare la sua sfida, nello stesso momento in cui appariva perdente nei confronti del poeta soldato.
Infatti, fra il 1919 e il 1921, la gara fu vinta da D'Annunzio, col quale il fondatore dei Fasci di combattimento non poteva allora competere in nessun campo, perché il poeta abruzzese, venti anni più vecchio del politico romagnolo, lo batteva per fama nazionale e internazionale, per esperienza nella Grande Guerra, per fascino carismatico sui militari e sui giovani tornati dalla trincea. E lo batteva anche come duce politico quando si mise a capo dell'impresa di Fiume e il 12 settembre 1919 assunse il comando del governo nella città istriana dando vita a un avventuroso esperimento politico, presto noto come fiumanesimo, che durò fino alla fine del 1920.
In quello stesso periodo, Mussolini, pur facendo rumore col suo giornale "Il Popolo d'Italia" e con qualche agitazione di piazza, come fondatore del fascismo poteva contare appena su qualche centinaio di seguaci in tutta Italia. E, nelle sue lettere al Comandante, vergate in stile dannunziano, si professava "il più devoto e disciplinato dei vostri legionari. E non pongo limiti alla mia disciplina. È perdutissima", come Mussolini scriveva all'inizio del 1920. "Sono il vostro soldato", gli ribadiva il 26 luglio. E ancora il 15 novembre, si firmava: "Sono con devota fede vostro Mussolini".
Tre anni dopo, tutto era mutato. E al duce trionfante della rivoluzione fascista, il 16 dicembre 1922, pateticamente il poeta scriveva: «Il meglio di me, offerto alla Patria, in tanti anni di pena volenterosa, oggi è falsato o rinnegato o calpestato... L'Italia d'oggi non m'ama e non crede in me... Fra giorni cadrà il secondo anniversario del Natale di sangue. Mi stenderò a fianco dei miei morti».
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