Maurizio Maggiani «L’amore? Come l’anarchia qualcosa che non si può dire»

l’intervista
Non ha mai scritto una poesia, ci confida Maurizio Maggiani, ma il suo ultimo romanzo, “L’amore” (Feltrinelli, pagg. 197, euro 16) è strutturato come un poema. E della poesia ha il senso dell’evocazione, quel dire le cose che è impossibile esprimere con parole diverse dall’arte. O forse, come nella scrittura in versi, le parole di Maggiani vogliono rigenerare il termine più complesso del mondo, dargli nuova linfa e candore. Tutto si svolge in 24 ore e in un giorno la voce narrante ricorda i suoi primi amori, come “fattarelli” che la sua sposa ama ascoltare e dove si intrecciano azioni, vicende, storia, rivoluzioni e anarchia.
L’amore, il più facile e il più difficile dei temi. Cosa l’ha spinto a scriverlo? «Un atto di teppismo, credo, anche civile – osserva Maggiani – certo non è questo il tempo giusto, come non lo è per molte idee. È come se io mi sentissi deprivato di cose molto importanti, partendo proprio dalle parole. Per esempio la parola “amore” è proibita, vietata. Oppure la usano spudoratamente per depauperarla, mortificarla. È una parola prigioniera».
È un romanzo dove la memoria è essenziale e ci dice quanto la felicità sia fatta di istanti, non di assoluti. Quindi cos’è la felicità?
«È prendere per esempio la parola “amore”, con tutto quello che ci sta dentro, e lanciarla come un sasso contro i suoi usurpatori. È sentirsi liberi in modo adulto. Per un adulto la libertà è un bene materiale, non è un’aspirazione, non è un sogno. Per un adulto la felicità è qui e ora: io qui e ora sono ancora pieno della dignità che mi aspetta come essere umano, sono ancora sovrano del mio destino e del destino delle persone a cui sono legato, dei miei fratelli, della mia sposa. Ecco, se ci sono queste condizioni, io sono libero quindi felice».
È interessante l’idea sviluppata nel romanzo, ovvero che il matrimonio è una sorta di rapimento. Ce la spiega?
«Non è il matrimonio, ma lo sposalizio. Parliamo sempre di parole che sappiamo essere importanti proprio perché pericolosamente ambigue. Il matrimonio è il sostantivo femminile di patrimonio, il patrimonio è da parte del padre mentre il matrimonio da parte della madre, cioè procreare una progenie che mantenga inalterato l’asse ereditario dei beni, è un contratto civile. Lo sposo invece significa “il promesso” e la sposa “la promessa”. E qual è il rapporto tra due promessi? È la fedeltà alla promessa, o meglio la signorilità, la responsabilità, quindi è una condizione di grande dignità civile. Il rapimento quindi è essere colmi, pieni di questa dignità».
Quindi “rapimento” non come: io ti prendo e ti porto via?
«Questa è una storia che precede ogni altra. È il gesto del “vieni con me” ed è ancora una volta un gesto di teppismo, in qualche misura, di ardore, come la leggenda del balilla genovese che lanciò un sasso contro un ufficiale tedesco che frustava un poveraccio, un gesto che significa: “Ora tocca a me, sono io che devo iniziare”. Io guardo la mia promessa a questo modo: lancio un sasso contro il destino, contro le opportunità, le evenienze e grido: “Sono io che devo cominciare”. Un gesto di ardore».
E poi c’è la storia, i cosiddetti “fattarelli” di un’epoca che oggi pare davvero lontana. Cosa rimane, oggi, di quel passato?
«Rimangono quelli che ne portano memoria e anche questo è un gesto di responsabilità. Rimane il fatto che quella storia è lì, possiamo dire che è passata ma finché c’è chi ne porta memoria è viva. È un altro grande tema il fatto che c’è un ordine di servizio dei grandi poteri, l’ordine alla dimenticanza. Ma l’ordine è destinato al fallimento finché c’è chi non ha dimenticato».
Scrive che la giustizia è come l’anarchia, non c’è da nessuna parte. Non è forse che l’anarchia assomiglia a quella sua perfetta descrizione dell’amore: bisogno di portare qualcosa che manca, di dare quello che non c’è?
«Certo. Questo è vero e aggiungo un aneddoto che mi riguarda quando, da ragazzino, nel ’68 – anni pieni di rivoluzione – sono andato a chiedere a un vecchio anarchico: che cos’è l’anarchia? E lui rispose che l’anarchia non si può dire. E quindi forse equivale anche per l’amore, è quel qualcosa in più che manca e manca talmente che non si può dire».
Platone, in un simposio di uomini, ha dato però parola a una donna per parlare d’amore. Cosa ci racconta questa faccenda?
«Platone era un misogino e non aveva parole per questo. Ma c’è un fatto che mi riguarda, sono stato educato da donne, in una famiglia contadina tradizionale. Gli uomini erano la grande autorità, ma rimanevano sullo sfondo. Tornavano la sera a casa dopo il lavoro con le loro tavole della legge su cui non era possibile mettere becco, poi però c’era la vita del giorno e in questa vita io ero guidato dalla mia bisnonna, dalle mie zie, da mia madre. Sono loro che mi hanno fatto ascoltare il mondo e quindi ho acquisito una sensibilità femminile. Forse questo è il mio patrimonio più prezioso».
A un certo punto lei cita Ungaretti. Cosa rappresenta la poesia?
«È un grande mistero, come la musica. Non ho mai scritto una poesia come non ho mai scritto una canzone, ma canto tutto il giorno, la musica mi possiede come mi possiede la poesia. È l’ineffabile e quindi nelle situazioni più intime, nell’attimo in cui vorrei dire l’indicibile alla mia donna, magari le canto una poesia». —
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