Mario Tronti, l’ultimo bolscevico

Il Saggiatore pubblica “Il proprio tempo appreso col pensiero” scritto politico postumo dell’autore di uno dei principali percorsi filosofici del secondo ’900

Giovanni Tomasin
Mario Tronti alla fine degli anni Ottanta
Mario Tronti alla fine degli anni Ottanta

Cos’è un comunista? Una domanda che molti oggi troverebbero anacronistica, futile. È una strana amnesia quella che oggi ci fa apparire remote quanto le guerre puniche le vicende di quel movimento che – nel bene e nel male – ha determinato il corso del Novecento. Vi era immune, per nostra fortuna, il filosofo e politico romano Mario Tronti – scomparso nel 2023 all’età di 83 anni – di cui Il Saggiatore pubblica ora “Il proprio tempo appreso col pensiero. Scritto politico postumo” (144 pp., 16 euro). L’agile volumetto condensa una vita trascorsa a lottare con il secolo di ferro appena concluso, e apre squarci di luce inattesi sul tempo che viviamo.

Mario Tronti nasce nel 1931 nel quartiere Ostiense, a Roma, da una famiglia popolare. Il padre comunista di stretta osservanza, la madre cattolica. Tronti è nel secondo dopoguerra parte di quella generazione, forse la prima della storia, che vede studiare i figli degli operai. Laureatosi in filosofia con Ugo Spirito, il giovane militante del Pci è tra i fondatori dell’operaismo nella seminale esperienza della rivista Quaderni rossi che condivide con Romano Panzieri, cui seguirà poi la fondazione – autonoma – di Classe operaia. Nel cuore dei “trenta gloriosi”, le decadi in cui il movimento operaio espugna una casamatta dopo l’altra e perfino il cauto Pci gramsciano si interroga sulla possibilità della rivoluzione in Occidente, il gruppo operaista è l’unico a leggere il suo tempo in chiave marxiana: indagando quanto avviene nei paesi del capitalismo avanzato - Usa, Regno unito – gli operaisti individuano nel movimento operaio il motore segreto dello sviluppo capitalistico, simultaneamente parte di esso e ad esso contrario. Il lavoro di quegli anni confluisce poi in un libro di Tronti del 1966, “Operai e capitale”, il cui influsso sulla sinistra internazionale arriva fino ai giorni nostri.

Per quanto quel testo abbia poi reso indelebile l’etichetta di “filosofo dell’operaismo” per Tronti, segna in realtà il passaggio a un’altra fase. Gli anni Sessanta volgono al tramonto e in un fulminante scritto sul primo numero di Contropiano, all’inizio del 1968, Tronti invoca una «nuova politica operaia» il cui scopo sia dividere stato e capitale, conquistando il primo attraverso – tra le altre cose – la «ricostruzione» del partito. Si tratta di un appello tanto lungimirante – alla luce delle condizioni materiali del momento – quanto vano: il ’68 studentesco e le sue derive vedranno prevalere a sinistra del Pci lo spontaneismo movimentista e una lettura soltanto ideologica della realtà. Viene meno così ogni possibilità di riarticolare il rapporto fra classe e partito.

Gli anni Settanta vedono Tronti allontanarsi dai temi dell’operaismo, in realtà per colmarne le carenze. È la stagione della “autonomia del politico”. Il recupero del pensiero grande-borghese e conservatore, avviato già nella fase precedente, viene qui impiegato per dare al movimento operaio la teoria realista della politica che sempre gli è mancata e che l’ortodossia marxista-leninista non è in grado di elaborare. L’armamentario sottratto all’avversario va da Machiavelli e Hobbes a Max Weber e Raymond Aron. L’architrave è l’incontro con Carl Schmitt, sul cui binomio “amico-nemico” Tronti instaura il punto di vista di parte, della sua parte, che ha bisogno di essere organizzata per poter esercitare una sua forza. Il tempo però volge altrove, e il Novecento si fa secolo minore: in Italia la deriva ideologica dei movimenti sfocia nel terrorismo nichilista e demente, mentre oltreoceano è l’altra classe, il nemico, a vedere ciò che Tronti vede e ad avviare la controrivoluzione neoliberale. Lotta di classe, sì, dall’alto verso il basso.

Gli anni ’80 sono il campo di questa battaglia condotta ormai soltanto da una parte sola: il triennio ’89-’91 segna il disarmo complessivo, con l’Unione sovietica (su cui Tronti non si è mai fatto illusioni) scompare anche la possibilità di invertire la marea in Occidente. Scrive in “Il proprio tempo appreso col pensiero”: «I padroni del mondo del nuovo capitalismo avevano messo in campo la sfida di tornare a misurarsi fronte a fronte a mani nude. Forse perché sapevano, avevano capito che, liquidato il nemico esterno, di nemico interno non se ne sarebbe nemmeno più parlato. Bisognava sorprenderli con una iniziativa di contrattacco. Che questo non sia avvenuto è colpa imperdonabile dei cattivi, divenuti pessimi, eredi della grande storia del movimento operaio».

Il pensiero di Tronti da lì in poi è un fare i conti con questa irrevocabile sconfitta, punto di arrivo di un percorso molto più lungo della storia dell’Urss: l’89-’91 è, per il nostro autore, la fine di un cammino iniziato nel Rinascimento, quando gli uomini iniziarono a guardare all’ordine del mondo come qualcosa che fosse possibile trasformare. In un mondo che non ammette questa possibilità, in cui l’ordine borghese è diventato ormai lo stato di natura di tutti gli umani, anzi di tutti gli individui, non c’è spazio per la modernità né per la politica sua figlia.

In questa fase di tramonto della politica, il pensiero di Tronti entra in dialogo con quello cristiano, da Ivan Illich a Sergio Quinzio, cercando nel rapporto fra spiritualità e politica una nuova postazione da cui opporre una critica totale al sistema-mondo. Agli eredi del movimento operaio rimprovera il dissolvimento, il non aver saputo dare al proprio pensiero una durata nel tempo che superasse anche le sconfitte nella contingenza, lezione di cui la Chiesa cattolica è più alta maestra. In “Dello spirito libero”, pubblicato nel 2015, delinea un vademecum, malinconico ma mai rassegnato, su come lo sconfitto del secolo scorso possa porsi in questo mondo ostile: un testo che a più riprese ricorda Eumeswil, il romanzo dell’Anarca di Ernst Jünger, autore a Tronti intimamente caro.

In “Il proprio tempo appreso col pensiero” – il titolo è una citazione hegeliana – il nostro autore tira una somma snella, combattiva, di questo lungo percorso e in particolare di quanto avvenuto negli ultimi trent’anni. Nell’essere un politico, attività che non ha mai abbandonato e che in fondo meglio lo definisce, Tronti si fa carico di pensare l’impensato, tracciare rotte nuove nelle lande sconosciute del presente. L’obiettivo? Preservare il fondamento, la linea rossa che attraversa tutto il percorso: il punto di vista di parte, della propria parte, in una società che è divisa anche quando si racconta come unita.

I temi che tratta possono risultare respingenti alle meningi odierne, così refrattarie alla contraddizione e quindi alla vita: come salvare la rivoluzione dalle sorti del socialismo reale, come salvare la libertà dalle sorti della democrazia reale. Sancisce poi l’abolizione dell’antica divisione fra massimalismo e riformismo, indicando una strettoia concettuale indigesta a molti: una politica riformista non è possibile oggi senza una simultanea critica radicale, assoluta, al sistema-mondo.

Temi che fanno girare la testa per la complessità concettuale che portano, al netto della trasparenza cristallina della sua scrittura. Conforta che Tronti, al contrario della «sinistra democratica» tarda erede del gramscismo, non si preoccupi di cosa e come poter dire per farsi capire dal popolo. Perché Mario Tronti è un proletario, e non ha bisogno di porre paternalisti limiti borghesi al proprio pensare. È così che può vedere, come fece Lenin, la possibilità del nuovo laddove gli altri vedono soltanto la condanna all’eterno ripetersi di questo vile presente. —

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