Manzoni? Un nevrotico che soffriva di agorafobia

Dopo aver fatto accomodare sul suo "lettino" di critico psicanalitico grandi autori della nostra letteratura come Leopardi, Pascoli, Pirandello, Svevo e Gadda, Elio Gioanola ha incentrato il suo...
Di Roberto Carnero

Dopo aver fatto accomodare sul suo "lettino" di critico psicanalitico grandi autori della nostra letteratura come Leopardi, Pascoli, Pirandello, Svevo e Gadda, Elio Gioanola ha incentrato il suo ultimo libro su un "mostro sacro" delle patrie lettere quale Alessandro Manzoni.

Il saggio si intitola “Manzoni, la prosa del mondo” ed è pubblicato da Jaca Book (pagg. 288, euro 20,00). Gioanola - piemontese, 81 anni, già professore all'Università di Genova - intreccia l'analisi della vita con quella dell'opera dello scrittore romantico, nella misura in cui l'esplorazione della personalità profonda di Manzoni è vista come chiave d'accesso privilegiata per scandagliare i significati della sua produzione.

Professor Gioanola, che immagine di Manzoni ha ricavato dai suoi studi?

«Quella di un grande nevrotico. Manzoni soffriva di numerose turbe psichiche, la più nota delle quali era la paura degli spazi aperti, per la quale egli trascorse tutta la sua vita quasi come un recluso. In anni in cui a Milano fervevano le attività culturali (dal gruppo del "Conciliatore" al cenacolo di Carlo Porta), lui faceva parte per se stesso. E, pur essendo intimamente un patriota, non prese parte diretta alle lotte risorgimentali, limitandosi a esserne spettatore».

Qual è l'origine di questa sofferta condizione?

«Il trauma dell'abbandono che subì da bambino e che lo segnò nei primi anni di vita. Il piccolo Alessandro non era voluto da nessuno: né dalla madre, la giovane e mondana Giulia Beccaria per la quale il neonato era un peso (infatti lo diede subito a una balia che lo allevò), né dal padre naturale, il brillante Giovanni Verri (fratello degli illuministi Pietro e Alessando), né dal padre legale, l'anziano conte Pietro Manzoni, che aveva più di una ragione per dubitare che quel figlio fosse davvero suo. Nessuno che si senta così rifiutato e abbandonato nei primi anni dell'esistenza può sviluppare da adulto una personalità solida ed equilibrata».

Eppure l'"autore ideale" che emerge dai Promessi sposi (vale a dire l'immagine dello scrittore che il lettore ricava dall'opera) è quella di un uomo sereno, sorridente, pacificato con s stesso e con il mondo. Non è una contraddizione?

«È una grande contraddizione, che mi sembra di poter spiegare in questi termini: il romanzo è l'argine che Manzoni pone al possibile traboccamento del proprio disagio psichico. Ma un po' tutto il suo lavoro letterario, comprese le poesie, rappresenta per Manzoni il tentativo di opporsi al richiamo dell'abisso. La letteratura è per lui un prodotto della ragione. Per questo, pur essendo un romantico, diffida della fantasia e della passione. Non è un caso che ponga in appendice all'edizione definitiva del romanzo (quella del '41-42, la cosiddetta "quarantana") la Storia della colonna infame e la parola "fine" soltanto dopo quel testo. D'altra parte da quel momento in poi dedicherà ogni sua energia a smentire in qualche modo tutto il proprio lavoro precedente, difendendo la Storia contro l'invenzione».

E la religione che ruolo ha giocato nella sua personalità?

«La dimensione religiosa fu per lui fondamentale. Manzoni però non vedeva la religione in opposizione alla ragione, anzi la fede era per lui il naturale completamento della ragione».

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