Manuel Vilas e la sua “Ordesa” dove è iniziata ogni bellezza

I genitori che abbiamo avuto, quelli che siamo. Il nostro essere figli e i nostri figli. Il pudore degli affetti, i gesti mancati, i silenzi. Le case, le fotografie, gli oggetti. L’umile materia che ci accompagna mentre la vita scorre e che non seppelliamo, anche «se c’è gente a questo mondo che ha passato più tempo accanto a un televisore o a un frigorifero che accanto a un essere umano».

“In tutto c’è stata bellezza”, dice lo scrittore Manuel Vilas. E così, nella traduzione italiana, si intitola il suo libro pubblicato da Guanda, che è stato un caso editoriale in Spagna nel 2018, come l’anno prima “Patria” di Fernando Aramburu. Vilas ne parlerà stasera a Pordenonelegge, in un incontro col pubblico, alle 21, al Capitol.

“Ordesa”, il titolo originale, è una valle montana della parte spagnola dei Pirenei, che il padre di Manuel, commesso viaggiatore, tanto amava, la meta delle gite familiari a bordo della Seat bianca. A Ordesa, Manuel torna cinquant’anni anni dopo, da uomo divorziato e solo, un passato da alcolista e due figli adolescenti per i quali è quasi un estraneo. Il padre è morto nel 2005, la madre nel 2014. Poco dopo lui ha smesso di bere. E Ordesa non è solo un luogo fisico, ma un momento che ne illumina altri, li riscatta dall’oblio, in quel lento ritorno alluvionale della memoria a cui si aggrappa per uscire dalla condizione di “orfanità”.

“In tutto c’è stata bellezza” è un lirico (e Vilas è un poeta), nudo, lacerante monologo, trafitto da brevi tratti di ironia. Persone e oggetti, entrambi testimoni di una storia domestica e universale, in cui è immediato riconoscersi, che escono dal passato con la potenza dell’affetto per sottrarre l’autore alla sua solitudine.

I genitori belli e controcorrente, una coppia che riempie e appaga gli occhi del bambino, gratificato dal sentirsi figlio loro. Sullo sfondo la Spagna degli anni ’70, la lotta per la promozione sociale, la casa con l’ascensore, gli amici. Poi, per Manuel, un lavoro da professore poco gratificante, il matrimonio e i figli, un’infedeltà che la telefonata inopportuna della madre rivela alla moglie, il divorzio, la dipendendeza.

Infine, la scrittura. Il libro che è «come una lettera d’amore a mio padre e a mia madre». Una tensione a recuperare anche le parole mai pronunciate in famiglia, quelle sulle vicende dei nonni, per esempio, che uscivano da povertà e guerra civile, ed ebbero destini tremendi, uno la prigione franchista, l’altro il suicidio. Una narrazione lenta, misurata ma a tratti scarnificante, da cui emerge la forza rigenerante degli affetti, del prendersi cura della memoria come di se stessi, per sopravvivere e accettarsi nelle fragilità e nei limiti.

Arianna Boria

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