Mai correre dietro agli autobus e alla donne. O del distinguere, a Trieste, il poetico dal patetico

Per Svevo, scrivere ha a che fare con patologia e terapia. Lo psicanalista non mi pubblica più niente: sto meglio

TRIESTE. Forse perché lo diceva Svevo che la vita è una malattia, per me Trieste e lo scrivere sono indissolubilmente associati a qualcosa di patologico ma anche di terapeutico. Quando ci studiavo, frequentavo un laboratorio di poesia guidato dal mio professore di spagnolo, Octavio Prenz. Ci incontravamo in un vecchio palazzo di Via Caprin, una sede distaccata della Scuola per interpreti, dove leggevamo insieme le nostre composizioni. Il professor Prenz non ci dava lezioni di scrittura ma ci aiutava a capire quello che volevamo dire. Soprattutto a distinguere il poetico dal patetico, lui che aveva il dono di fare di ogni suo gesto un atto di poesia. Un pomeriggio lo incontrammo per strada mentre l’autobus per la Scuola ci stava sfuggendo da piazza Goldoni. Noi corremmo e saltammo a bordo. Il professore no.

Con eleganza perse l’autobus e arrivò in ritardo alla lezione. Ma entrando in classe ci ammonì con un esempio della sua poetica: “Detrás de los autobuses y de las mujeres jamás deben correr!” Intanto in Via Caprin, nelle cupe stanze percosse dalle sferzate della bora, ognuno di noi componeva versi che sognava di vedere pubblicati. Io ci riuscii già qualche anno dopo, quando il mio psicanalista mi chiese di riportare una mia poesia in un suo articolo sulla nevrosi per una rivista di psicanalisi. Ma ben altri poeti ci incalzavano in città, nostri temuti e più dotati concorrenti: i matti di Basaglia. Loro non erano fagocitati come noi dalla fregola del successo letterario. Volevano solo stare meglio.

Per la festa di S. Giovanni li raggiungemmo all’Ospedale psichiatrico per leggere tutti insieme le nostre poesie. Durante la lettura qualcuno urlò e si rotolò per terra, segno che c’era ancora tanta malattia nei nostri componimenti. Io che abitavo in via S. Nicolò mi sentivo in qualche modo contaminato dallo spirito di Saba. Pensavo che per osmosi qualcosa della sua lirica sarebbe passata in me quando mi esponevo con lo stomaco vuoto dello studente al magnetismo della sua libreria. Doveva pur servire a qualcosa lo struggermi con le sue poesie dedicandole a ragazze sempre diverse.

Ancora oggi recitandole a memoria mi vengono in mente una per una, segno che davvero la poesia è terapeutica, almeno quella degli altri. In quei tempi avevo conosciuto una ragazza slovena che per convertirmi alle sue lettere mi insegnava filastrocche in quella lingua ai triestini invisa. Con lei imparai un pot-pourri di sloveno inutile che andava dai canti di chiesa all’Internazionale, dal frasario di un vocabolarietto militare italiano a liriche tratte da un misterioso libro che mi regalò lei e che possiedo ancora: “Trinajst slovenskih sodobnih pesnikov”.

Così avevo imparato a dire ”Poljubi me”, “Vstanite v suženjstvo zakleti” e “Sem mlado slovensko deklé”. Recitavo il mio repertorio davanti ai suoi genitori le domeniche in cui mi invitava pranzo, grato per il pasto caldo che mi sembrava così di ricambiare. Loro mi ascoltavano impressionati che l’amore per la loro figlia potesse tanto. Siccome in italiano il mio successo letterario tardava, mi arrischiai a comporre in sloveno. Non diceva forse la poetica espressionista che i deliri di matti e primitivi sono opere d’arte?

E poi al laboratorio del professor Prenz c’era uno studente polacco che sosteneva che se nella sua lingua non si usavano gli articoli, anche l’italiano poteva farne a meno. Le sue poesie sembravano liste della spesa ma mandavano in visibilio le ragazze più belle del laboratorio, quelle per cui ero lì. Sono molti anni ormai che vivo lontano da Trieste e la sua potenza terapeutica deve per forza essersi indebolita in me. Ma molti segnali mi fanno credere che sono infine guarito. Se non altro, il mio psicanalista non vuole più pubblicare niente di quello che scrivo.

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