Magris tra i fantasmi di Trieste inseguendo un’ossessione che fa rivivere de Henriquez
di RENZO SANSON
Quando lo storico si arena per mancanza di documenti e testimonianze, quando il giudice si arrende all'insufficienza di prove ed entrambi sentenziano il "non luogo a procedere", ecco, in quel momento ha inizio il lavoro dello scrittore.
Dieci anni dopo "Alla cieca", esce il nuovo attesissimo romanzo di Claudio Magris, "Non luogo a procedere" (Garzanti, pagg. 362, euro 20) che sarà presentato alla Buchmesse di Francoforte, dove nel 2009, ricevendo il prestigioso "Friedenspreis" dei librai tedeschi, il germanista e scrittore triestino aprì il suo discorso parlando di Diego de Henriquez, bizzarro collezionista triestino che, dopo aver dedicato tutta la sua esistenza alla raccolta di un immenso materiale bellico della prima e della seconda guerra mondiale, sognando di costruire un "Museo Storico di Guerra per la pace", morì nel 1974 nel misterioso rogo (archiviato come "accidentale", in realtà doloso) del magazzino di via San Maurizio 13 a Trieste, dove viveva, dormendo in una bara-letto, attorniato da buona parte della sua macabra collezione di cimeli. Ares per Irene.
Dopo la lunga incubazione, il nuovo romanzo di Magris, imperniato sulla storia di quell'uomo e del suo grottesco Museo (ora finalmente aperto in via Cumano 22), è diventato una discesa nell'inferno dell'umanità, fra le tragedie, gli orrori e le cicatrici dell'odio e delle guerre. «Da tempo convivo con l'ombra di quest'uomo, che le fiamme del suo rogo hanno proiettato anche sulla mia mente e sulla carta su cui cerco di scrivere - confessò Magris sei anni fa -. Quell'ombra mi interessa forse perché è pure una grottesca parabola di uno dei tanti abbagli che insidiano la pace già nelle nostre teste prima ancora che nella realtà. Per esempio credere che la guerra sia inevitabile, inseparabile dalla vita, come nella "Grande illusione" di Renoir».
"Non luogo a procedere" ha la complessità strutturale di "Alla cieca", ma una singolare, ordinata frammentarietà, ricca di link e riferimenti incrociati. Nelle 53 lasse narrative si alternano capitoli lunghi, veri e propri racconti - taluni già apparsi in nuce in articoli sul "Corriere", come il ritratto dell'indio Chamacoco a Praga (7 maggio 1998) - e brevi paragrafi, schede d'inventario e catalogo della memoria per il futuro museo. Cifra stilistica in cui riemerge anche la qualità "cinematografica" della prosa di Magris, che calza a pennello con la visionarietà di molte "scene", crude e appassionate, talvolta deliranti, poiché la loro profonda verità si può cogliere solo passando attraverso il delirio.
Lo scrittore imbocca una strada nuova, insospettata per un amanuense inveterato: una costruzione per schermate, adatta a un ebook, che apre improvvise finestre spazio-temporali, in cui la trama si snoda tra paesi e paesaggi, storie e figure anche lontani nel tempo, che si contraggono e si dilatano in una fantasmagoria di colori, oggetti, volti, lingue, odori. E si proietta una sequenza di immagini in cui s'intrecciano amore e morte, orrori e infamie cancellate come se non fossero mai accadute. A partire dalla cupa cinerea Risiera di San Sabba, l'unico forno crematorio nazista in Italia, capolinea o ultima stazione di transito per migliaia di esseri umani, ebrei e non solo.
Dai diari (alcuni "spariti"), dagli appunti, dalle testimonianze raccolte da de Henriquez affiora una storia "non ufficiale" di Trieste, con i suoi fantasmi, le sue lutulente e mefitiche memorie del sottosuolo, dove sono seppellite le colpe e i silenzi che coinvolgono - durissimo j'accuse - non solo singoli individui (vittime, delatori, carnefici) ma anche un'intera classe politica e sociale che s'illuse di non sporcarsi le mani stringendo (assieme agli affari) anche le mani insanguinate dei criminali. Un viaggio allucinante che fa entrare nei meandi della mente dei personaggi con una tecnica microscopica, che ricorda il film di Fleischer sceneggiato da Asimov, fra gangli nervosi, glioblastomi in agguato, sinapsi dove guizzano inconfessabili segreti, ataviche paure, abissali vuoti dell'anima e della storia. Fantasmi e ombre, ma anche tanti nomi e tante piccole e grandi storie che sarebbe impossibile elencare tutte: da sior Popel, negoziante di giocattoli di Rena Vecia, al guardiamarina Sagani; da Perla, esotica bellezza africana «che danzava anche quando solo parlava o sorrideva», al soldatino austriaco Otto Schimek, ucciso dalla Whermacht perché non volle sparare ai civili polacchi; senza dimenticare l'arciduca Massimiliano, sfortunato imperatore del Messico. Ci sono pagine che vanno oltre la prosa, sconfinando nella poesia, ed altre in cui la storia diventa fiaba, popolandosi di pifferai magici, bambole parlanti, soldatini di piombo, mastri Geppetti, amori e melarance.
"Non luogo a procedere" è forse il primo romanzo di Magris che scorre su due binari paralleli - un uomo, una donna - affiancando alla storia di Diego de Henriquez quella della professoressa Luisa Brooks, figlia di una donna ebrea di Trieste e di un sergente afro-americano della Divisione "Buffalo". Alla storia di Luisa sono dedicati ben nove capitoli che uniscono la diaspora e l'olocausto ebraico alla schiavitù dei neri d'America. È lei, in fondo, la polena di questo romanzo, che seguiamo nel faticoso allestimento del museo e al tempo stesso attraverso la follia della guerra e del razzismo, tragedie immanenti di una umanità e di un mondo pieni di cicatrici, in cui alla fine dominano la ruggine, la polvere, il marciume disgustoso in fondo all'anima.
Come il mare, anche questo libro - intenso e appassionante fino a stordire - accoglie, sostiene, abbraccia, altre volte respinge, soffoca, fa annaspare. Potrebbe anche essere un film o una maratona teatrale alla Peter Brook. Intanto da leggere.
Non guardare indietro, è vietato, lo dice anche la Torah. Non resta che fare un bel tuffo. Un tuffo dove l’acqua è più blu, niente di più.
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