Magris dai Gesuiti al Sacro Cuore: «Questa chiesa, luogo della felicità»

TRIESTE. «Questo luogo mi ha reso felice». Poche parole, un concetto chiaro espresso con la serenità di chi non è più un praticante da ormai 60 anni, ma che sente di essersi formato e di essere diventato quello che è nella Chiesa del Sacro Cuore. È quanto Claudio Magris sente di dovere alla chiesa di via del Ronco, che ha frequentato da giovane catechista. Il professore lo rivela a un pubblico fatto di fedeli ma anche di amici, di antichi coetanei catechisti di oltre mezzo secolo fa, che sono venuti ad ascoltarlo ieri sera a celebrare i 400 anni della presenza della Compagnia di Gesù a Trieste.
Un’occasione speciale per uno specialissimo relatore. «Ma non farò una conferenza», ha messo in chiaro Magris, accolto da qualche timido applauso e catturato dalla ripresa degli smartphone. Padre Luciano Larivera gli ha lasciato la parola descrivendolo come memoria narrante della vita della chiesa. Il riferimento è all’ultimo capitolo di “Microcosmi”, il libro di Magris nel quale la chiesa compare in un sogno, una fantasia sulla morte di un uomo che ritrova sotto gli affreschi dell’abside di Piero Lucano una folla di volti conosciuti e amati lungo tutta la vita. Ma proprio nel momento estremo quel luogo, la Chiesa del Sacro Cuore, riesce a infondere una serenità, se non proprio una persuasione, a quel salto verso l’ignoto.
In quel racconto, scritto oltre 20 anni fa, Magris metteva la chiesa tra uno dei suoi luoghi dell’anima. Un posto che dava pienezza all’esistenza, dove c’era spazio per tutti e da cui si è usciti, lo ha detto ieri, senza nessuna superbia sociale. Diversi, ma uguali nella dignità. Il debito di Magris è verso un ambiente, un milieu, che si è costituito in modo unico tra quelle mura, in quegli anni del Dopoguerra in cui la comunità si mischiava con altre persone venute da lontano, come i profughi istriani.
Non è una conferenza quella di Magris, ma volente o nolente il magistero del professore si dispiega ugualmente a ogni sua parola. Così il ricordo di don Poli, il gesuita che lo cacciò dal confessionale alla terza volta che gli si presentò davanti nella stessa giornata, diventa l’occasione per una riflessione sul peccato e sulla colpa. «Il primo è una norma oggettiva, una realtà concreta, come insegna Kafka, poeta della colpa. E io grazie a quel gesuita mi sono liberato della coscienza scrupolosa, della mania, della ossessione del peccato, del suo peso malato. Forse mi sono liberato così anche dalle mie nevrosi, anche se il mio amico seduto qui tra noi e che mi conosce da sempre non ne è per niente convinto».
Felicità, riflessione morale. Ma anche fantasia. Gli affreschi con il simbolismo del Sacro Cuore, le tende color oro vecchio del confessionale avranno spinto il giovane Magris anche all’immaginazione. Il professore non lo ha detto, ma è possibile che abbia sognato a lungo su quei disegni, facendo nascere in lui desiderio di vedere in quelle storie un altrove nel quale poter entrare per riscriverlo. Un’esistenza resa ricca grazie alla formazione religiosa, anche se ormai vissuta con distacco: il debito di Magris alla Chiesa del Sacro Cuore è pagato.
Riproduzione riservata © Il Piccolo