Ma a Trieste il 25 aprile non era una festa condivisa

Nel 1946 il colonnello Bowman del Gma decise che si celebrasse la liberazione, incassando il deciso “no” dei comunisti
I partigiani di Tito scendono dal colle di San Giusto a Trieste
I partigiani di Tito scendono dal colle di San Giusto a Trieste

TRIESTE Anche a Trieste nel 1946, fu celebrato il primo anniversario dell'insurrezione dell'Alta Italia. Quello che oggi, per brevità, si definisce con "il 25 aprile". Erano passati soltanto quasi dodici mesi dalla fine della guerra in Europa e le macerie erano ancora lì, anche lo sforzo per la ricostruzione era stato pressoché immediato, quasi non volesse lasciare più nemmeno il tempo al lutto o alla speranza di vedere rientrare un proprio caro da un campo di internamento. Più che ai morti, allora, si pensava ai vivi. E i vivi, o meglio i sopravvissuti, pensavano al presente.

L'anniversario giungeva in Italia in una fase cruciale: da poco erano state celebrate le prime elezioni amministrative del dopoguerra e gli italiani ora si avvicinavano al successivo appuntamento, il referendum istituzionale del 2 e 3 giugno che avrebbe dovuto scegliere tra repubblica e monarchia, con un esito tutt'altro che scontato.

Quindi quel 25 aprile, giorno di festività nazionale stabilita per legge, assumeva particolare rilevanza in un'Italia, ancora regnante la monarchia sabauda. Ma quassù a Trieste, nella Venezia Giulia come era stata percepita e vissuta?

Era noto che l'intera Venezia Giulia e Zara, vista la particolare situazione, sarebbero state escluse da quella consultazione, come accadde pure per la provincia di Bolzano, ma anche per gli italiani dei possedimenti coloniali oltre i prigionieri di guerra sparsi in tutti continenti.

Tuttavia le forze politiche triestine che si rappresentavano nei partiti italiani, decisero di aderire all'appello: però non si trattava di celebrare la fine della guerra in Europa e tantomeno l'insurrezione di Trieste, ma il "25 aprile" come data fondante la nuova storia d'Italia.

In tal senso, il colonnello Bowman, responsabile degli affari legali del Governo militare alleato, dispose che il 25 aprile nella zona A della Venezia Giulia fosse giorno festivo. La decisione non accontentò affatto in particolar modo i vertici locali del Partito comunista che invece puntavano a fare dell'imminente Primo° Maggio la giornata non solo dei lavoratori, ma della liberazione per mano delle forze militari di Tito.

Le due posizioni erano assolutamente inconciliabili: d'altronde per i partiti italiani, il 25 aprile corrispondeva pure alla volontà di confermare la piena adesione data dal Cln all'ordine di insurrezione dell'Alta Italia, coerente agli continuità politica di Trieste con il resto d'Italia. La posizione comunista, invece, intendeva segnare una netta cesura della Venezia Giulia con l'Italia. La polemica però si intrecciava con altri fatti non di poco conto: in quei giorni si radunavano a Parigi i ministri degli esteri delle Potenze che avrebbero poi aperto i lavori della Conferenza di pace a decidere anche delle sorti della Venezia Giulia; a Trieste si era concluso il processo contro il torturatore fascista Luigi Maraspin, con la sua condanna a morte poi commutata in pena detentiva, e si era aperto quello contro il generale Giovanni Esposito; al cantiere navale di Monfalcone ben mille operai erano stati avvisati di prossimo licenziamento scatenando preoccupazione e forti risentimenti contro proprietà e Gma.

Comunque la posizione comunista, per tramite del Consiglio di liberazione di Trieste, era chiara: il 25 aprile non poteva essere riconosciuto come giorno di liberazione - ben vero che allora i nazisti ammazzavano ancora - ma il Primo maggio, cioè il giorno dell'ingresso della IV armata jugoslava, negando quindi la stessa insurrezione cittadina del 30 aprile a cui avevano partecipato.

Quel 25 aprile, dopo una messa di suffragio nella Cattedrale di San Giusto, celebrata dal vescovo Santin, sotto il monumento ai Caduti, parlarono Bruno Steffè, già comandante della brigata garibaldina Fratelli Fontanot, e Antonio Fonda Savio, comandante dell'insurrezione cittadina del 30 aprile. Dai microfoni di Radio Trieste intervenne Marino Colombis, partigiano combattente nella destra Tagliamento con la Osoppo.

Si evitarono i toni celebrativi e le parole evocarono l'epopea dei partigiani italiani all'estero e quei momenti finali, il sacrificio dei più giovani - Fonda Savio aveva perduto l'ultimo figlio proprio il Primo maggio ucciso da una granata tedesca -, si pensava con preoccupata trepidazione al futuro di una regione già divisa.

Non conosciamo il numero dei partecipanti ma le poche fotografie disponibili mostrano un piazzale sufficientemente gremito. Tuttavia meno gente di quella raccolta un mese prima per le grandi manifestazioni in occasione della visita della Commissione alleata.

Seguirono l'indomani i commenti. Ma se "La Voce libera", organo dei partiti del Cln, era intonata alla perfetta sintonia con il senso politico che in Italia si intendeva dare al 25 aprile, "Il Lavoratore", per bocca dei comunisti, preferiva stigmatizzare su alcune affermazioni ritenute razziste verso le popolazioni slovene del contado, pronunciate da una giovane oratrice.

Compassata e breve la cronaca del "Giornale alleato", pressoché silenzioso "Il Corriere di Trieste" che tuttavia riportava notizia del conferimento della medaglia d'oro alla memoria del giovane ebreo triestino e comunista Eugenio Curiel, che era stato ucciso a Milano il 24 febbraio 1945.

La conta dei morti, a dispetto dei vivi, non era finita. Ma bisognava ora pensare ai vivi.

©RIPRODUZIONE RISERVATA

Riproduzione riservata © Il Piccolo