L’uomo dalle mille facce s’inventò anche il forte Maciste
Per i suoi discepoli e ammiratori amava definirsi un umile Terziario Francescano, ovvero membro laico di un ordine mendicante. Una delle sue tante facce, in questo caso francamente di bronzo, di uomo vanitoso, oltre che soldato e aviatore e, ovviamente poeta e letterato, raffinato esteta, gran frequentatore di salotti e seduttore di dame. A dire il vero, l’inguaribile e spericolata prodigalità lo spingeva a contrarre debiti enormi, dribblare i creditori e quindi elemosinare quattrini a tutti per potersi concedere un tenore di vita ben al di sopra dei suoi già notevolissimi introiti. Nel 1914, il cinema vinse D’Annunzio per fame: quella dei suoi cinquanta cani, che sazia con 50 mila franchi, un’enormità, ricavati dalla stesura delle didascalie per il film “Cabiria”, italica sfida ai kolossal americani.
Il soggetto è tratto dal romanzo “Cartagine in fiamme” di Emilio Salgari, morto da pochi anni. Studiando gli archivi della storia, D’Annunzio scopre un eroe poco noto dell’antica Grecia, di nome Mechisteo. È così che nasce Maciste, di forza sovrumana e vendicativo, ma dedito a salvare fanciulle e indifesi dai soprusi dei malvagi. Non a caso, posture, mascella protesa, occhi roteanti, saranno poi ripresi negli atteggiamenti ai vari balconi, a beneficio del popolo, da Benito Mussolini che afferra ben presto la suggestione del cinema sulle masse.
Per lui D’Annunzio rispolvera i richiami ai fasti di Roma antica, conia slogan come “eia eia, alalà” , dal verbo greco “alalazo” (levare il grido di guerra) facendo suonare cosa da signorine l’«hip, hip, hurrà» della perfida Albione.
Ciò non toglie che a Mussolini D’Annunzio fece fare anticamera per ben tre ore al Vittoriale, fastosa magione sul lago di Garda, e nulla gli impedì di criticare apertamente nel 1938 la svolta nazista della politica italiana. Adolf Hitler fu da lui definito un “pagliaccio feroce”, un “ridicolo Nibelungo truccato alla Charlot”, un “Attila imbianchino”. D’Annunzio era talmente narcisista da non cogliere il ridicolo di essersi autoproclamato Duce per quindici mesi nella città di Fiume, finché la Marina militare italiana lo sgomberò a cannonate non lasciandogli sulle labbra, rivolto a Giolitti, altro che il “me ne frego”. Invettiva di larghissimo successo, assurgerà a capo classico nell’armadio di tutte le stagioni politiche.
Del resto D’Annunzio era, oltre che grande poeta, una cornucopia di neologismi. La risposta italiana al “sandwich” inglese nasce a Torino nel 1925, quando chiede nel caffè Mulassano “un altro di quei golosi tramezzini”, allora farcito solo di burro e acciughe. Esperto aviatore s’inventa la parola “velivolo”, vocabolo di aurea latinità, perfetto per indicare il nuovo mezzo di trasporto. Quello più consolidato, l’automobile, fino al 1926 era declinato quasi ovunque al maschile, ma l’intervento di D’Annunzio, alquanto disinibito, fu dirimente. Nell’automobile, spiega, ci entri e la guidi dove vuoi tu. E incalza: “automobile è femminile. Questa ha la grazia, la snellezza, la vivacità di una seduttrice; ha inoltre una virtù ignota alle donne: la perfetta obbedienza”.
Sempre a lui si deve il nome “Rinascente” a Milano in via Santa Radegonda, primo grande magazzino a vendere abiti preconfezionati, distrutto da un incendio nel 1917 e poi ricostruito. E “vigile del fuoco” andò a sostituire, in piena autarchia culturale, il francese pompiere, tra inventiva e latinità. Eccentrico, sensuale, ardito, “io ho per temperamento, per istinto, il bisogno del superfluo” si flagella il Terziario Francescano. E per tutta la vita si atterrà strettamente alla regola. —
C.B.
Riproduzione riservata © Il Piccolo