Lucia Joyce, la sfortunata sirena nata a Trieste che morì dimenticata all’ombra del padre genio
TRIESTE «Una ragazza. Bellissima. Indossa un bizzarro costume da sirena, rivestito di scaglie scintillanti»: con queste parole Francesca d’Aloja descrive l’impatto che una famosa fotografia di Lucia Joyce, la figlia del grande scrittore irlandese, ha avuto su di lei, intenta a stilare un libro fatto di camei, intitolato Corpi speciali (La nave di Teseo). Il fatto che Lucia Joyce emerga come personaggio in compagnia di altri protagonisti del passato è indubbiamente un fatto rilevante, perché per anni questa donna, nata a Trieste nel 1907, ha conosciuto una vera e propria damnatio memoriae, un ostracismo legato anche al suo triste destino, che l’ha vista trascorrere gli ultimi trent’anni della sua vita relegata fra le sbarre di un manicomio, prima in Francia e poi a Northampton in Inghilterra.
Di lei si è saputo poco fino a una trentina di anni fa, quando, anche ad opera della biografa inglese Brenda Maddox (Nora, 1988), la sua figura comincia ad emergere nel contesto famigliare joyciano, in cui era stata incomprensibilmente “sacrificata” da un sorta di congiura che aveva fatto capo al fratello Giorgio, anche lui nato a Trieste nel 1905.
Di lei si era sempre parlato come della «figlia di Joyce», una figlia molto amata dallo scrittore ma non accettata (per complesse ragioni psicologiche) dalla madre Nora, fragile nella sua personalità forse anche segnata dai continui cambiamenti di soggiorno (a cominciare da quelli nelle ben undici diverse abitazioni triestine in cui mosse i primi passi negli anni più delicati di un’adolescente).
Cresciuta negli ambienti della Trieste austriaca in un contesto italofono, aveva seguito le vicissitudini famigliari, trasferendosi a Zurigo durante la prima guerra mondiale e proseguendo le scuole primarie in tedesco, tornando poi all’italiano nella capitale adriatica dal 1919 al 1920 per finire gli studi in francese a Parigi. Ormai adulta, Lucia frequenta gli ambienti intellettuali della capitale, scegliendo subito una vita promiscua e creativa, legata alla sua grande passione per la danza. Nella ville lumière degli anni venti le sollecitazioni culturali erano potentissime (solo nel campo coreografico, basti citare personaggi colossali come Isadora Duncan con la sua “danza libera” e come Margaret Morris con la sua Scuola di danza) e Lucia studia, infatti, con il fratello di Isadora, Raymond Duncan crescendo negli ambienti surrealisti (abilissima nell’arte grafica produce piccoli capolavori).
Tra il 1927 e il 1929 partecipa a molte performance ed entra nell’entourage di Margaret Morris, facendo parte della compagine Les six de rythme et couleur, un gruppo d’avanguardia fondato da Lois Hutton e Héléne Vanel. Un’attività molto apprezzata, che le concede finalmente spazi fuori dalla famiglia, ampliando il suo campo artistico, visto che, per i suoi balletti, si rivela bravissima nel disegnare i propri costumi, che cuce lei stessa, come il famoso abito da Sirena: un pezzo davvero geniale (citato da Francesca d’Ajola), indossato per uno spettacolo al Bal Bullier nel 1929. E proprio al Bal Bullier viene scelta fra le sei finaliste del Festival Internazionale della danza. Come ha ricordato Carol Schloss nel suo libro biografico a lei dedicato (To Dance in the Wake, 2003), Lucia fece anche tournée all’estero e venne in Italia. Le città in cui, nella primavera del 1927, si esibì col suo gruppo nel Jardin enchanté su musiche di Ravel, furono Genova, Roma, Bergamo e…Trieste. Un fatto di cui non si sapeva nulla!
Dunque Lucia, nata a Trieste, città che lasciò nel giugno 1920 per Parigi, tornò una seconda volta da noi. Di questo fatto, purtroppo, non ci sono prove locali (né al Rossetti, né al Verdi), se non il programma e il luogo delle rappresentazioni. Héléne Vanel, che ammirava Joyce, ebbe modo di sottolineare come il genio del padre fosse passato alla figlia. Ma sotto il successo covavano i fantasmi psicologici di Lucia. Questi anni furono pieni di avventure sentimentali disastrose quanto occasionali, il che accrebbe la sua inquietudine di fondo, legata anche alle profonde incomprensioni con la madre Nora. Di mezzo, inoltre, ci fu anche un’ambigua relazione con il commediografo Samuel Beckett, che frequentava la casa di Joyce come suo segretario. Lucia se ne innamorò, non ricambiata (Beckett, in una lettera del 1935 recentemente pubblicata, scrisse che la donna lo infastidiva ancora a distanza di anni, aggiungendo, impietosamente, che con lei «aveva fatto solo alcuni dètour»).
E poi cominciarono le sue stranezze: spariva, si dava a chiunque…fino all’episodio del 1932, quando aggredì Nora lanciandole una sedia. Internata alcuni anni dopo, con l’incomprensibile firma di suo fratello Giorgio, pur confortata dall’amore di Joyce (un amore possessivo, assolutistico), che pure la consegnò, senza successo, alla cura di Jung, Lucia scese inesorabilmente la china della malattia (schizofrenia? paranoia? la psichiatria a quel tempo era imprecisa). Ma, forse, il colpo finale per questa creatura innocente e sfortunata, giunse proprio dal padre, quando decise che «non era fisicamente e psichicamente forte abbastanza per essere una danzatrice di qualsiasi tipo». Morì nel manicomio di Northampton nel 1982, sola. Nora non andò mai a visitarla. —
© RIPRODUZIONE RISERVATA
Riproduzione riservata © Il Piccolo