Lucia Goracci: questa Turchia è figlia di un’Europa sbagliata

di BENEDETTA MORO
È arrivata in Turchia il 14 aprile per il referendum, dove non si aspettava «un dissenso così pronunciato verso Erdogan»”. Lucia Goracci, inviata Rai, in questi giorni segue anche la vicenda del documentarista italiano Gabriele Del Grande ancora rinchiuso nelle carceri turche. Nella prima giornata del Festival Link, inaugurato ieri a Trieste, doveva partecipare a un incontro con la collega Barbara Gruden proprio per parlare delle trincee del Medio Oriente. Però il suo lavoro non le ha consentito di essere presente.
In collegamento Skype, mentre rincasava in albergo a Istanbul, ha parlato con “Il Piccolo” dell’immenso mosaico che è il Medio Oriente. Alcuni la paragonano a Oriana Fallaci, ma forse sarebbe meglio definirla la versione femminile di Khaled Fouad Allam.
Quali sono gli sviluppi dopo il referendum in Turchia?
«Sono arrivata pensando a un esito abbastanza prevedibile: pensavo che la maggioranza del “sì” fosse più ampia e forse se la immaginava anche Erdogan. È stata una sorpresa invece, il “no” è stato particolare, perché c'è una strana dinamica. Ha preso fette del partito di maggioranza, del suo alleato e ha sorpreso tutti. Ora forse questo è un inizio a una nuova ondata di protesta, perché non c'è più quel mondo intellettuale... Ieri ho sentito prima il ministro di Giustizia e poi il presidente che hanno detto che l'opposizione non può ricorrere oltre alla decisione della commissione elettorale centrale, di escludere una riconta dei voti, che non può ricorrere quindi alla Corte costituzionale, ma se un'opposizione non può ricorrere per una materia del genere alla Corte costituzionale, quando può farlo?»
Nei rapporti Europa-Turchia quanto noi possiamo rimanere fermi?
«C'è chi sostiene che rompere del tutto può avere un effetto boomerang, probabilmente si è persa un'occasione quando la Turchia voleva entrare e aveva più possibilità di adesso in termini di garanzie. Io ricordo che quando mi trovavo a Istanbul dopo il golpe sventato, la gente diceva che noi europei li abbiamo considerati cittadini di “serie b” per oltre 50 anni. Ovviamente una leadership populista soffia sul fuoco del risentimento che l'Unione Europea ha determinato in termini di aspettative deluse. Ora però questa Turchia non ha la carta d'identità in regola per entrare in Europa».
l'Ue "usa" la Turchia come scudo per la venuta dei profughi siriani, ma a che prezzo?
«Abbiamo delegato a questo Paese il controllo avanzato delle nostre frontiere sud orientali. Un ingrato compito, se c'è una cosa che va riconosciuta a questo Paese è che si accolla da sei anni i profughi della guerra siriana. Siamo stati capaci di redistribuire 60mila persone, la Turchia ne ha 2,7 milioni. Quindi quando noi pensiamo di fare la lezione alla Turchia, loro ci rispondono "Sì, però...". Questo accordo con la Turchia è il nostro tallone d'Achille, perché l'ondata di migranti che dai Balcani bussavano alle porte dell'Unione Europea nella tarda estate 2015 hanno fatto tremare le fondamenta dell'Europa. Io sono convinta che questo referendum, è comunque una sconfitta politica per Erdogan - gli uomini forti fanno un referendum perché si trasformi in un plebiscito, che per lui non è stato. La certezza che ha questo presidente è che la retorica anti-europea ha pagato. Le comunità turche in Europa, soprattutto nei Paesi in cui la campagna era stata più aspra, hanno votato massicciamente per il referendum. In Olanda hanno sfiorato il 70 per cento dei “sì”. E allora lui chiederà tante cose all'Europa, che non ha risposte se non di chiudere le frontiere».
Ma Erdogan vuole entrare in Europa?
«No, lui guarda ai sistemi presidenziali asiatici. Guarda a Oriente. Non è riuscito a fare della Turchia il faro dell'Islam moderato, anche perché la Siria ha perso profondamente. Adesso gioca sul tavolo ad alleanze variabili. Se serve la Russia, fa l'amico della Russia, così dell'America, è molto scaltro. E soprattutto ha un Paese che glielo consente. Quando non si ha più una stampa libera, di conti te ne presentano pochi alla fine».
Come vivono oggi i profughi siriani in Turchia?
«La situazione è meno disperata di quella che ho visto in Libano. Nel Sud della Turchia c’è una sorta di quella che io chiamo “osmosi” tra territori turchi. È un Paese dove sulla guerra di Siria si è scommesso molto dal punto di vista geopolitico e sulla rapida caduta di Assad. Si è pensato che la stessa cartina della Siria si potesse riscrivere a vantaggio della Turchia. Penso che molti siriani guardino all’Europa come un punto d’arrivo, molti vivono in Turchia, a un certo punto si era anche parlato di riconoscere loro la cittadinanza. Non c’è una situazione di particolare disagio né di conflitto come in Europa, dove c’è una questione identitaria, perché abbiamo ancora dei Paesi dove a capo ci sono persone che pensano di difendere l’uomo bianco cristiano con un dato d’immaturità democratica fortissima. In questo hanno ragione i turchi: prima di fare la lezione, gli europei dovrebbero guardarsi dentro».
Pensa di tornare in Siria?
«Sì, bisogna tornare, è davvero un’incognita: non riesco a capire cosa sarà il Paese fra tre mesi e figuriamoci fra tre anni. È diventato il terreno di conflitto, un crocevia di guerre. C’è la guerra della ribellione di matrice sunnita contro un regime davvero spietato minoritario di Assad. C’è la guerra delle ambizioni tra le potenze regionali che hanno pensato di prendersi il proprio pezzetto di Siria. C’è la guerra dei curdi che hanno trovato nel conflitto siriano la loro occasione storica, c’è la guerra delle super potenze che devono dimostrare che la propria capacità di deterrenza funziona ancora e che è tale da minacciare l’altra super potenza».
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