L’Orlando visionario di Ronconi in piazza Unità

45 anni fa, con un cast eccezionale, il regista mostrava a Trieste il suo teatro immaginifico. Il cordoglio di Napolitano
Luca Ronconi
Luca Ronconi

Dalle frammentarie notizie di sabato sera, quando a Milano era in corso la rappresentazione della sua “Lehman Trilogy” e gli attori stavano ancora recitando, all’ondata di post, tweet e condoglianze “social” che ieri ha fatto corteo alla scomparsa di Luca Ronconi. Il regista - curiosamente nato in Tunisia - avrebbe compito 82 anni il prossimo 8 marzo ma a vederlo, fino a poche settimane fa, pareva che in quel corpo ormai fragile le energie non dovessero mancare mai. Ronconi sembrava riacquistare forza a ogni nuova regia: sorridente sotto la barba bianchissima e scherzoso alle prove di questo suo ultimo spettacolo: una saga sull’ascesa e la caduta della famiglia Lehman cui sono state legate le sorti del boom economico americano e di quella crisi infinita che oggi viviamo: un allestimento bello, ambizioso, applaudito a lungo, elaborato su un testo del drammaturgo Stefano Massini.

Ieri le pagine dei giornali e dei notiziari online hanno fatto presto a riempirsi di superlativi e iperboli. Genio e leggenda, i più abusati. Certo, Ronconi era geniale e molti dei suoi spettacoli sono rimasti leggendari. Dallo sperimentale “Orlando furioso” del ’69, all’apocalittico “Gli ultimi giorni dell’umanità” del ‘90 , fino all’infinito “Infinities” del 2002. Ma il trionfo degli aggettivi e i riflettori puntati addosso, a lui non piacevano: preferiva muoversi sobrio e ironico, preferiva il suo modo di parlare divagante e accidentato. Preferiva persino quel semplice piatto di riso davanti al quale lo abbiamo trovato, una volta che siamo saliti lassù, a Casa del Diavolo - il nome del paese, sulle colline umbre, è proprio questo - in quell’edificio in mezzo al verde, basso, a misura d’uomo, incastonato nella natura (ma progettato dalla scenografa Gae Aulenti) che era il suo rifugio. Il luogo della quiete quando l’impegno delle regie (oltre 120 quelle di prosa, più di 100 quelle di teatro musicale), la direzione di teatri, l’invenzione di progetti, la conduzione di scuole e laboratori, gli concedeva del tempo.

A “Lehman Trilogy” Ronconi si era dedicato con la meticolosità e la pazienza di sempre. Mettendo insieme tutte quelle competenze che facevano di lui non “un regista”, ma senza ombra alcuna “il regista”, in una precisa formula italiana, che era diventata modello europeo, se non mondiale. Lo studio accurato per capire, illuminare, reinventare i testi. Il lavoro incessante con gli attori per condurli là, dove lui voleva. Una capacità scatenata nel muovere la scena: il gioco delle botole e dei trabocchetti, sedie, tavoli e divani che scivolano via, pareti e falsipiani che scorrono e si aprono a sorpresa. Erano la sua cifra teatrale. “Una macchina di conoscenze”, così Ronconi intendeva il teatro. Tanto che bisognerà riprendere in mano le lunghe conversazioni (raccolte da Gianfranco Capitta in un volume di due anni fa che si intitola appunto “Teatro della conoscenza”) e le pagine nelle quali Ronconi racconta con ironia e senso del divertimento i suoi 60 anni di teatro e la sua esperienza, il suo matrimonio con la scena. “Dire ‘la mia esperienza’ è impreciso - spiegava - bisognerebbe piuttosto dire ‘le mie esperienze’: ne ho fatte …di tutti i colori, consapevolmente e con determinazione”. Con consapevolezza aveva deciso, non ancora trentenne, di non fare più l’attore. L’inadeguatezza che sentiva nello stare in palcoscenico era stata vinta con la capacità di governare la scena e di creare, come un artista barocco, quei giochi sontuosi e ricchi che sono stati tutti i suoi spettacoli. Da quelli citati più su, che restano iscritti nella storia del teatro come capolavori, alle invenzioni più misteriose o spiritose: “come “Diario privato” di Léataud (con Albertazzi e la Proclemer a ricorrersi in scena, piazzati su poltroncine telecomandate, veloci come bolidi), come “Ignorabimus”, “Quer pasticciaccio brutto de via Merulana” tratto da Gadda, “Il silenzio dei comunisti”.

A voler ricordare alcuni dei suoi titoli recenti, tra quelli passati in regione, bisognerà mettere in fila, in due occasioni al Mittelfest, “Danza macabra” di Strindberg con Adriana Asti, e prima ancora “La modestia” dello stravagante argentino Spregelburd. Oppure “Inventato di sana pianta”, spassosa commedia mitteleuropea di Hermann Broch, vista 8 anni fa al Rossetti. Ma quando il suo “Orlando furioso”, 45 anni fa, giunse anche a Trieste e invase piazza Unità con le scene recitate contemporaneamente su carrelli mobili, con un fantastico Ippogrifo alto cinque metri, e un cast che annoverava Mariangela Melato, Ottavia Piccolo, Michele Placido, un’intera generazione scoprì che c’era un modo diverso di fare teatro. E oggi, scomparso Ronconi, proprio grazie a lui, può continuare a pensare che ci sia ancora il modo per farlo.

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