Lorenzo Pilat: «Il mio rivale Celentano»

Il cantautore triestino ha partecipato tre volte al Festival come concorrente e venti da autore
BRUNI TRIESTE 28 12 05 FESTIVAL CANZ TRIESTINA:lorenzo Pilat
BRUNI TRIESTE 28 12 05 FESTIVAL CANZ TRIESTINA:lorenzo Pilat

TRIESTE. «Ai tempi d'oro Sanremo è passato per Nilla Pizzi, Orietta Berti, Adriano Celentano, Lucio Battisti, ma poi il rebelot fino ad oggi. Ho presentato diverse canzoni a Sanremo, molte sono diventate dei bestseller internazionali. Un tempo i motivi in gara si ricordavano facilmente, c'era una melodia orecchiabile, da canticchiare il giorno dopo. La nuova missione di Sanremo? Far tornare nel cuore degli italiani la melodia che è insita nella semplicità della canzonetta».

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Lorenzo Pilat, in arte Pilade, triestino classe '38, ha partecipato tre volte a Sanremo come cantante (nel '66 in coppia con Celentano con "Il ragazzo della Via Gluck", nel '68 con Nino Ferrer e con Antoine, nel '75 da solo con "Madonna d'amore" che vinse anche il premio della critica) e più di venti volte come autore (e co-autore con Pace e Panzeri).

Se in Italia ha centrato hit come "Fin che la barca va" di Orietta Berti, il successo internazionale è legato a un brano del 1969 ripreso da Tom Jones, ricorda Pilat: «"Alla fine della strada" la cantava Junior Magli, l'arrangiatore era un po' titubante sulla velocità della batteria. Allora Pace andò in sala a Sanremo per dare il tempo al batterista ma sono andati così veloci che la canzone è durata un minuto.

Un disastro! Ma la fortuna aiuta gli audaci, ed ecco che questo provino arriva a Tom Jones che dice "yeahhh very good" e la vuole fare lui. Nelle classifiche mondiali, "Love me tonight" ha superato il milione di passaggi televisivi e radiofonici ed è stata premiata con un Grammy a Los Angeles».

Con che spirito andava a Sanremo? «Non m'interessava vincere perché richiedeva dei compromessi, mi bastava partecipare perché il pacchetto musicale veniva proposto in tutto il mondo, i dischi si vendevano».

Un bravo cantante? «Deve essere intonato. Delle donne l'ultima intonata è Giorgia. Orietta Berti a volte è calante ma mi dà emozioni. Mina non avrebbe mai cantato "Fin che la barca va" e secondo me è sbagliato, perché un bravo cantante deve saper cantare tutto. Claudio Villa per me resta il cantante italiano per eccellenza, o Giorgio Consolini, un romantico della vecchia guardia».

Ai tempi lei curava l'immagine? «Ci vuole anche la presenza, mi guardavo allo specchio prima di andare in tv. Seguivo le mode, senza esasperazione. Mi sono fatto anche la pelliccia di scimmia, eravamo in tre ad averla nel '66: io, John Lennon e Gina Lollobrigida. E poi gli stivaletti, una collana, una borsa Gucci».

È vero che a volte il ruolo dell'autore non è valorizzato. «Il pubblico identifica il cantante con la canzone, ma spesso non l'ha scritta lui. Poi ci parli e lo trovi differente da quello che immaginavi. Il cantante fa successo ma se non ha un buon autore non va da nessuna parte. Mogol ha fatto dei bei testi, in coppia con Battisti era esaltante. Lucio? Un bravo ragazzo, mi fa male parlarne pensando che non c'è più».

Ha vissuto a Milano, per tornare poi nella sua Trieste. «Milano mi piaceva molto, per il ritmo: non si dorme, non si perde tempo. A 23 anni avevo vinto tutti i concorsi possibili in Italia e Vittorio Salvetti, anche lui esordiente, ha cominciato a propormi alle case discografiche e soprattutto a farmi entrare nel Clan di Celentano.

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Salvetti aveva bisogno di uno sponsor, la ditta Moccia faceva la Sambuca, andavamo in un ristorante con i rappresentanti, suonavo la chitarra e si otteneva la simpatia dello sponsor. Da lì il Festivalbar è decollato con la prima edizione ad Asiago che ho vinto (sezione giovani)».

E Celentano? «La mia preparazione era superiore alla sua, suonavo meglio la chitarra, le mie abilità gli davano un po' fastidio, c'era competizione. Lui puntava sull'esibizionismo, il modo in cui si muoveva era davvero simpatico e poi ha un modo di cantare particolare: non posso che dirne bene. Anche se non è nata un'amicizia, ma non ho fatto lega con nessuno».

La sua infanzia e i primi contatti con la musica? «Sono nato in Via Fabio Severo, accanto non c'era niente, solo un cortile con le galline, da mamma triestina e papà friulano; poi abbiamo vissuto nelle case popolari in Via Paisiello. Quando mamma mi portava in braccio, appena sentivo la musica muovevo le braccia. Ho cominciato a cantare le litanie nella chiesa di Via del Ronco.

A 16 anni ho cominciato a partecipare ai concorsi. Nel 1959 ho vinto il primo premio alla Birreria Dreher di Via Giulia, un locale spettacolare, lì ho cominciato a conquistare il pubblico. Negli anni '60 a Trieste c'erano 30 sale da ballo, non esisteva disc-jokey e quindi ogni sala aveva la band che suonava dal vivo, si poteva vivere di musica».

Il presente e il futuro? «Collaboro con Tele4. In questi anni ho portato al Rossetti il mio recital. Il dialetto rappresenta la storia di un paese ed è giusto tenerlo vivo. Bisognerebbe seguire il mio esempio di spontaneità per creare una Trieste più allegra. Vorrei ritornasse lo spirito della Birreria Dreher. Io sono disponibile a mettere la mia professionalità per valorizzare anche il turismo cittadino».

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