L’ombra lunga dell’odio nell’attentato di Sarajevo a Francesco Ferdinando

la recensione
Diabetico, aveva avuto un calo glicemico dopo che la bomba lanciata da Cabrilovic era finita sul tetto dell’auto di Francesco Ferdinando senza ferirlo. Il progetto di uccidere l’erede di Francesco Giuseppe sembrava fallito, perciò Gavrilo Princip era entrato in una panetteria a mangiarsi un panino per tirarsi su, e quando era uscito si era trovato di fronte proprio la vettura con l’arciduca e la moglie. Un calo di zuccheri, una strada sbagliata, un primo maldestro attentatore, due spari con la Browning e la storia che non passa la mano quel giorno a Sarajevo fece incrociare per non più di tre secondi due uomini, il giovane bosniaco e l’erede al trono degli Asburgo, che non potevano essere più diversi. Lo scrittore sarajevese Miljenko Jergović si è lanciato senza paura di scottarsi e prendendo decisamente le parti del giovane (“Gavrilo uccide Francesco Ferdinando e Sofia in un attentato e uccidere in un agguato non un atto eroico, ma lo è difendere i propri ideali”) in un argomento che da quelle parti è infiammabile come e più delle nostre foibe. Il suo “L’attentato” (Nutrimenti, 185 pagg., 18 euro) è una ricostruzione/riflessione/saggio storico su un evento “che ha fatto di tutti noi bosniaci degli emarginati, espatriati, apolidi”, sottolinea dolente l’autore, che percorre le biografie di quelli che legarono il loro destino a quei due spari. A cominciare dai due attori principali. Per Ivo Andric, che aveva conosciuto Princip e come lui aveva aderito alle idee dei giovani bosniaci nutrite di nazionalismo prima di staccarsene, Gavrilo e Francesco Ferdinando erano vittima e carnefice. Assegnando quei ruoli, Andric disegna un ordine morale all’interno delle emozioni, nota Jergović, ma cento anni dopo l’attentato quell’ordine non esiste più, come se il mondo fosse tornato ai tempi precedenti lo sparo di Gavrilo. Però adesso non c’è ordine nemmeno a Belgrado, non c’è ordine in Europa, perché ovunque si dimentica che gli assassini combattevano per la libertà. “Oggi Sarajevo - scrive a un certo punto Jergović - si trova immersa nello stesso odio, forse anche più forte di quello del 1914, con la differenza che serbi e croati in questa città non ci sono più”. Jergović, uno degli scrittori balcanici più apprezzati e più tradotti in Italia, segue le vite parallele di Princip e di Francesco Ferdinando: il primo amava l’arte, scriveva poesie, pensava che non avrebbe fatto altro nella vita, l’altro non mostrava propensione intellettuale, non aveva letto molto, l’arte non lo interessava, gli piaceva viaggiare e voleva imparare le lingue dei popoli dell’impero. Princip non pensava alle donne, era asceticamente teso verso il suo ideale di libertà; Ferdinando aveva testardamente voluto sposare Sofia Chotek, boema, appartenente a una classe nobile inferiore e decaduta, accettando un matrimonio morganatico. E gli altri attentatori? Giovani cresciuti tra il biliardo e i romanzi americani, entrati di prepotenza in un modernismo dove il tram elettrico e i grammofoni facevano a pugni con la società contadina che perdurava attorno. Poeti e sognatori che facevano ogni giorno esperienza con la malattia, la tubercolosi (ne erano affetti sia Princip che la sua vittima) e la morte. Ubriacarsi di ideali, sparare, morire, era facile in anni in cui erano tante le teste coronate a morire sotto i colpi dei gruppi cospirativi. Allora i civili sparavano agli imperatori, ai re e ai capi di governo, mentre oggi i re e i capi di governo sparano sui civili, chiosa Jergović. “Nella primavera del 1992 - conclude lo scrittore riflettendo sull’onda lunga del gesto di Princip - mi sembrava che Gavrilo scagliasse di persona le granate degli obici serbi, mentre adesso mi sembra che nel 1992 Gavrilo bruciasse con la città. Bruciava e si spegneva la sua memoria e svaniva la possibilità che si ricomponesse il paradosso sul tragico caso della modernizzazione incompiuta della Bosnia e di Sarajevo”. —
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