L’olmo grande di Gian Mario Villalta parabola verde in via di estinzione

Esce domani con Aboca il nuovo lavoro dello scrittore e poeta pordenonese nell’albero le memorie di un bambino degli anni ’60, la famiglia, la natura

TRIESTE Rassicurante, solido, costante. Un muto testimone che preserva la memoria dell'infanzia, che vigila sulle trasformazioni e sulla modernità che investono il mondo contadino. La campagna familiare subisce traumatici cambiamenti da cui l'albero è provvidenzialmente preservato. L'olmo grande è come un uomo, come un padre, un punto di riferimento “che orienta lo sguardo su un paesaggio e lo caratterizza”. A partire da quell'albero posto in fondo al suo campo nella pianura friulana occidentale Gian Mario Villalta costruisce una storia appassionata, poetica, dura e racconta di sé, come uomo e come scrittore, nel libro “L'olmo grande” (Aboca Edizioni, pagg. 224, euro 14), che esce domani.

Coi suoi rami lunghi e le fitte foglie, alto e dritto, l'albero segnala un limite di proprietà e assicura un'ombra protettiva. Qualcosa che se per l'io narrante diventa una speciale parentela che porta ad atti di struggente affetto come quello di abbracciare la pianta, per altri può invece maturare in un sentimento opposto, addirittura in odio. È l'atteggiamento del vicino che nell'ombra prodotta dalle fronde vede solo il danno per la giusta maturazione del suo vigneto. Quell'uomo, affidabile e solerte, è attratto dall'olmo ma può rivelarsi spietato. E così quando il fuoco inghiotte il grande albero con un rogo drammatico è quasi scontato accusare lui di aver volontariamente bruciato i sarmenti accatastati.

Per il bambino protagonista della storia è un momento cruciale. Sono giornate incise nella memoria per sempre. Un sabato di novembre degli anni Sessanta, l'eccitazione collettiva per l'uccisione del maiale, il mondo degli adulti che se da una parte è da imitare, dall'altra rimane sempre estraneo, avverso ed enigmatico. Ma in questo libro l'autore mette qualcosa in più, parla di un vissuto e parla anche della genesi di un suo romanzo precedente, il bellissimo e crudo “Bestia da latte”, ambientato nello stesso ruvido Nord-Est, nella campagna del Pordenonese, dove è la natura a farla da padrone.

Il racconto di Villalta diventa allora un dizionario fatto di foglie, odori, giochi di luce e ombra, un catalogo che rispecchia i passaggi cruciali e traumatici dell'infanzia nell'esistenza vegetale che segue le stagioni e la temperatura della natura nei suoi costanti e riconoscibili cicli. La narrazione, tra evocazione ed elaborazione di quelle sensazioni profonde e pesanti, sembra seguire un codice dettato dalle leggi grammaticali dell'evoluzione del mondo contadino. Accanto alla scoperta dei rituali di campagna e alle esperienze formative ci sono la durezza dei rapporti e il nonnismo dei parenti da cui ci si difende in silenzio cercando di costruirsi un linguaggio adeguato.

Ogni capitolo del libro ha la valenza di una biblioteca potenziale in cui si moltiplicano le narrazioni, le visioni e i significati simbolici. Come finestre, si aprono continui sguardi, rimandi esistenziali, dove l'attenzione per il dettaglio ha la complicità delle vitali forme vegetali. Non mancano le parole di altri autori, le citazioni classiche illuminanti di Virgilio per il quale “l'olmo è l'ultimo simbolo di mediazione tra la superficie e gli inferi”. E se il protagonista ha rimosso dalla memoria di quando l'albero, dopo essere stato bruciato, viene segato e abbattuto, è la stessa pianta dell'olmo ad essere diventata ormai più un ricordo che una realtà: a causa della grafiosi, malattia causata da un fungo di origine asiatica che blocca i vasi della pianta che portano la linfa, di olmi ce ne sono sempre meno.

Scrive Villalta: «L’olmo c’è ancora, ma se lo conoscete correte il rischio di non vedere con gli occhi la stessa immagine accesa nella mente dalla parola “olmo”: la grafiosi non attacca le piante con la scorza ancora tenera. Vivono e si propagano. Quindi l’olmo non è scomparso, ma ha cambiato totalmente ciclo di vita e soprattutto, come in una brutta favola, da albero d’alto fusto s’è ridotto alla dimensione arbustiva». —


 

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