Lo storico Gianni Oliva «Le foibe? La politica le lasci agli studiosi seri»

L’apprezzato autore di tanti libri sulla Seconda guerra mondiale interviene nel dibattito sulla mozione della Regione contro i “negazionisti” e il manuale sul Giorno del Ricordo 

l’intervista

Pietro Spirito

La politica deve occuparsi di politica e non di storia, e se lo fa vuol dire che non è in grado di fare politica. Gianni Oliva, storico, politico e giornalista, autore di numerosi libri sulla seconda guerra mondiale tra cui “Profughi. Dalle foibe all'esodo: la tragedia degli italiani d’Istria, Fiume e Dalmazia” (Mondadori, 2005) interviene nel dibattito scatenato dalla mozione numero 50 del Consiglio regionale del Fvg e, nel difendere la figura e l’opera dello storico Raoul Pupo («l’ho sentito, è molto sereno al riguardo») boccia senza indugio l’atto amministrativo e mette alcuni punti fermi sulla questione storiografica.

Dunque la politica non può intromettersi nella ricerca storica.

«Parlo da storico ma anche da politico - risponde Oliva -, avendo fatto l’assessore alla cultura alla Regione Piemonte. La politica deve guardare all’organizzazione del presente e alla progettazione del futuro. Quando è diretta al dibattito sul passato è perché non è capace di occuparsi del presente. Quando un’amministrazione pubblica eroga dei finanziamenti, è giusto che si ponga il problema di come e a chi erogarli, ed è giusto che stabilisca dei criteri. Ma questi criteri non devono essere basati sui contenuti, su cosa dicono gli enti di ricerca, piuttosto la credibilità va misurata sul merito, sullo spessore scientifico dell’ente. Dopodiché siamo in democrazia, l’amministratore deve finanziare sia chi è vicino al proprio partito ma anche chi è del partito opposto. Nello specifico è giusto non finanziare i negazionisti, ma non perché sono negazionisti, ma perché se sono negazionisti allora vuol dire che non sono scientificamente credibili».

Uno dei nodi attorno ai quali gira la polemica è se le foibe furono o meno un genocidio.

«Io credo che il termine genocidio sia un termine ripreso dalle esperienze della ex Jugoslava degli anni Novanta, e quindi attribuito in modo improprio alle vicende del confine orientale nel 1945. Quello di Tito era un progetto politico-nazionalistico finalizzato ad annettere alla nuova Jugoslavia le terre mistilingui, togliendo di mezzo la classe dirigente che poteva difendere l’italianità di quelle terre. Le foibe furono quindi una strage etnico-politica. Che è poi ciò che ha detto il Presidente Mattarella parlando di progetto etnico-nazionalistico. Le foibe non furono genocidio. Il genocidio è un’altra cosa, le foibe non possono essere paragonate alla Shoah. La storia va capita per quello che è stata: è indubbio che allora siano stati perpetrati massacri, e che questi massacri abbiano colpito persone in larga parte italiane. Ma nelle foibe finirono anche migliaia di sloveni e croati anticomunisti, e non per questo quelle stragi furono meno gravi. Per quanto ci riguarda le foibe furono l’estremo prezzo che abbiamo pagato alla guerra e al fascismo. Se non ci fossero stati Mussolini e la guerra non ci sarebbe stato nemmeno il comunismo jugoslavo».

Quanto c’è ancora da fare sotto il profilo della ricerca storica?

«Molto, perché finora si è attinto ad archivi parziali. C’è una parte consistente di archivi ancora da analizzare, tenendo conto che molte vicende sono difficili da ricostruire perché nessuno in certe situazioni mantiene la contabilità. Ma se è vero che ci sono ancora ricerche “quantistiche” da espletare, esiste soprattutto un problema di vulgata. Non è tanto una questione di quante furono le vittime, il problema è come si affronta l’argomento. È vero che la vulgata è figlia della ricerca, ma poi è la divulgazione quella che radica una conoscenza nella società. E su questo siamo in enorme ritardo, in particolare nella scuola. Vado spesso a parlare di questi argomenti nelle scuole, e quello che vedo è disarmante. La scuola italiana non insegna la storia contemporanea, mentre per i giovani conoscere la storia contemporanea significa conoscere le ragioni e quindi i pericoli che stanno dietro vicende come le foibe. Che furono figlie del nazionalismo, dall’una e dall’altra parte, e i pericoli legati ai nazionalismi sono più attuali che mai».

A proposito di scuole, come valuta il “Vademecum del Giorno del Ricordo” dell’Istituto regionale per la storia della Resistenza e dell’Età contemporanea finito sotto accusa?

«È un lavoro molto serio messo a punto da tre storici fra i massimi esperti della materia, e quindi lo trovo molto positivo. Invece ho trovato meno credibile la sintesi dell’Associazione Nazionale Partigiani d’Italia. Intanto perché non credo che l’Anpi debba occuparsi di queste cose, le lasci agli storici. E poi la sintesi è un riassunto del lavoro svolto a suo tempo (1993-2000, ndr) dalla “Commissione mista italo-slovena per una storia condivisa” che è uno studio interessante dal punto di vista della storia diplomatica fra Italia e Slovenia, ma che riduce le foibe a venti righe. Un documento più politico che storico, un compromesso e non nel senso positivo del termine».

A ogni Giorno del Ricordo scoppia la polemica. Come se ne esce?

«Intanto non sono d’accordo: ho partecipato a molti incontri e dibattiti in varie parti d’Italia con esponenti politici di ogni tendenza, dai Cinque Stelle al Pd ai berlusconiani, e ogni volta sono state manifestazioni riuscite e partecipate. I problemi, lo ripeto, cominciano quando qualcuno vuole mettere le sue bandierine sul passato perché non sa dove altro metterle. Oggi in Italia delle foibe si parla, mentre vent’anni fa non se ne parlava, è questo è positivo. Ed è storicamente interessante anche capire perché vent’anni fa non si parlava né di foibe né di esodo. Dopodiché per superare davvero le divisioni bisogna parlarne ancora di più e meglio, formare su questi argomenti una coscienza nazionale e fare in modo che la politica si occupi della politica lasciando che gli storici si occupino della storia». —

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