Lo sciopero dei fuochisti del Lloyd del 1902 represso nel sangue per fermare i nazionalismi
TRIESTE Nello Scimmione peloso, un dramma espressionista di Eugene O’Neill, scritto dal drammaturgo americano cent’anni fa, Mildred, la ricca figlia di un industriale in crociera nell’Atlantico, chiede di scendere con la zia nei bassifondi del transatlantico per visitare il locale delle caldaie.
Così Mildred lascia il lusso della prima classe per immergersi nel ventre bollente della nave, e lì osserva i fuochisti, guidati dal ribelle Yank, intenti a un lavoro infernale, ridotti come bruti. I fuochisti sembrano animali, sembrano scimmie, sporchi e piagati dal fuoco.
Con questa rappresentazione O’Neill voleva sottolineare l’abisso fra il mondo dorato dei capitalisti (il padre di Mildred è un industriale dell’acciaio) e lo squallore di un proletariato sfruttato e sottomesso. I poveri fuochisti, infatti, sono obbligati a turni disumani.
Siamo nel 1922, ma le condizioni di lavoro di questa categoria di addetti alle caldaie non sono molto cambiate nell’arco di vent’anni. Per i fuochisti la vita è dura e le grandi compagnie di navigazione si comportano come negrieri. A Trieste ve n’è una molto importante, il Lloyd Austriaco, che distribuisce battelli in ogni parte del mondo.
Agli inizi del XX secolo, il Lloyd possiede ormai una grande flotta di 65 navi che superano le 163.000 tonnellate di stazza lorda, e ogni nave ha sei fuochisti che vivono in locali malsani, con turni superiori alle dodici ore giornaliere.
In queste miserrime condizioni i fuochisti, sin dalla fine del 1901, indirizzano le loro rivendicazioni sindacali alla direzione del Lloyd. La lista delle richieste riguarda il lavoro straordinario, con la limitazione a dieci ore in porto e otto ore in viaggio. Un’aspettativa, questa, alquanto ragionevole, considerato l’impegno innfernale cui sono sottoposti. A fronte di ciò, però, il Lloyd risponde in modo assai brusco. Che non se ne parla neppure. Tant’è che i fuochisti, ingenuamente, si appellano al luogotenente austriaco, il conte Goëss, il quale, ben lungi da fungere da intermediario con il Lloyd, afferma acido: «Io non tratto con voi».
Va notato, fra l’altro, che le rivendicazioni non riguardavano neppure il problema dell’aumento dei salari, per altro anche questi molto bassi. Ma il risultato di questa moderazione da parte dei lavoratori imbarcati fu un accanimento della direzione del Lloyd, che si appellò al Governo, richiedendo un intervento repressivo.
Ne scaturì la mobilitazione dei reparti del 47° e dell’87° Reggimento fanteria, richiamati da Gorizia e da Pola. Allo schieramento della truppa si aggiunsero azioni offensive da parte della polizia, che iniziò ad arrestare gli operai per “illegale astensione dal lavoro”. Cui fece seguito una campagna di arruolamento di crumiri.
Come ricorda Giuseppe Piemontese nel “Movimento operaio a Trieste” (1974), quest’operazione non sortì nulla, tant’è che il Lloyd «si rivolse ancora al Governo, questa volta per ottenere l’ausilio dei fuochisti della marina da guerra». E fu l’inizio della fine.
La reazione, da parte dei lavoratori della grande e della piccola industria «scoppiò irrefrenabile e fu subito proclamato uno sciopero generale di solidarietà coi fuochisti». Il 13 febbraio 1902, con una città paurosamente vuota e piegata dalle raffiche di Bora, tutto si fermò, persino i tram, e fiumi di operai cominciarono a riversarsi in centro, guardati a vista dalla truppa schierata.
Quel giorno non ci furono incidenti, anche se la tensione era alle stelle, mentre, sempre pacificamente, i lavoratori proposero al Lloyd di sottoporre la questione al giudizio di un collegio arbitrale.
La notte passò tranquilla, e il giorno dopo, il 14 febbraio, una fiumana partì da Barriera Vecchia incolonnandosi sul Corso verso Piazza San Carlo. Allo stesso tempo la direzione del Lloyd si rese conto di non riuscire a bloccare lo sciopero (nemmeno i fuochisti della marina da guerra arrivarono, per problemi logistici) e accettò una “transazione” (che effettivamente poi ci fu).
Ma gli scioperanti (circa centomila, secondo Piemontese) non avevano fatto i conti con il conte Goëss, ben deciso a dimostrare la forza del potere. Ben presto i soldati sbarrarono le vie collaterali al corteo, creando i presupposti per un ingorgo pauroso. Fu a questo punto che i militari aprirono il fuoco sui dimostranti, caricati psicologicamente dai loro ufficiali. E fu proprio il 97° Reggimento a distinguersi per brutalità. Caddero i primi lavoratori, colpiti da fucili e da baionette.
Ma il giorno seguente, il 15 febbraio, altri ancora furono assassinati in piazza della Borsa, e il conto sul terreno fu di 14 morti, più uno non identificato e un poliziotto. Il tutto, si potrebbe dire, per niente, dato che il “lodo” del Collegio arbitrale fu favorevole ai fuochisti e concesse tutte le richieste.
Non è facile dare una spiegazione univoca per questo delitto. Certo, da parte del Governo si registrava la seria paura che da ciò nascesse un forte rivendicazionismo socialista (in Italia il generale Bava Beccaris aveva già cannoneggiato gli operai a Torino nel 1898).
Ma ci sono anche altre ragioni. Per esempio la volontà, da parte del Lloyd, di riabilitarsi col Governo austriaco a fronte di uno scandalo finanziario che lo aveva screditato (vedi il libro “1902-2002: La lotta dei fuochisti del Lloyd Austriaco”, Istituto Saranz), oppure la paura che dietro ci fosse un crescente movimento irredentista. E, anche, aleggiava il sospetto che lo sciopero potesse collegare nazionalismi italofoni con nazionalismi sloveni, essendo presenti entrambi le comunità, come sottolinea nel suo libro Piemontese. Tutte prove generali di una conflittualità che sarebbe durata a lungo. —
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