Lo “scandaloso” Pasolini secondo Ferrara e Defoe

VENEZIA. Quarant'anni senza Pasolini. Ma con il suo cinema, e più in generale la sua opera. E per quanto riguarda la sua figura, anche con il cinema "su" Pasolini, dove cioè il poeta di Casarsa è...
Di Roberto Pugliese

VENEZIA. Quarant'anni senza Pasolini. Ma con il suo cinema, e più in generale la sua opera. E per quanto riguarda la sua figura, anche con il cinema "su" Pasolini, dove cioè il poeta di Casarsa è divenuto un "character", un simbolo, un'ombra lontana ma sempre presente nella storia e nella cultura italiana. In questo contesto s'inserisce, esplosivamente, il "Pasolini" di Abel Ferrara, con lo scavato e tragico Willem Dafoe nei panni del poeta, oggi in concorso alla Mostra. Non certo un film-inchiesta, non un "giallo" o un film a tesi, ma una ricostruzione in carne viva dell'ultima giornata di Pasolini come metafora estesa di quel salutare, eversivo "scandalo" sotto il cui segno si svolsero tutta la sua vita ed opera. E non v'è dubbio che la posizione assunta dal 62enne regista del Bronx, simile a quella del "suicidio per delega" di cui parlò Edoardo Sanguineti, susciterà non poco subbuglio fra i teorici del complotto e i sostenitori dell'impossibilità dell'"uomo solo" dietro l'omicidio di Ostia del 2 novembre 1975.

«Non c'è mistero sulla morte di Pasolini - dichiara perentorio Ferrara intervistato dal suo stesso sceneggiatore Maurizio Braucci per Ciak - è come se il mistero fosse sopraggiunto dopo il suo omicidio: infatti nessuno dei suoi familiari fu troppo sorpreso da ciò che accadde quella notte… Il vero mistero per me è come funziona il business del mistero, con qualcuno che ogni tanto spunta fuori con una nuova teoria o con una nuova rivelazione, che in molti casi non viene da un'inchiesta accurata».

Dunque è solo nello scandalo, "diritto degli scandalizzanti e piacere per gli scandalizzati" secondo le parole stesse di Pasolini, che risiede l'universalità della sua voce e quindi il senso stesso del film.

Del tutto evidente perciò la distanza da altre opere che hanno visto il fantasma di Pasolini aggirarsi al cinema da almeno trent'anni, ossessionando l'immaginario collettivo; come ad esempio quel "La macchinazione" di David Grieco, protagonista Massimo Ranieri, attualmente in lavorazione e incentrato sul furto nel '75 delle copie di "Salò" intrecciato con la brutale fine del poeta. O come lo svedese "PPPasolini" di Malga Kubiak, del 2014. E la tesi della cospirazione è apertamente sposata da "Pasolini, la verità nascosta" (2013) di Federico Bruno o dal tv movie francese "Vie et mort de Pier Paolo Pasolini" (2004) di Cyril Legann e Antoine Soltys, mentre più mirati sul suo pensiero e sospinti nei labirinti oscuri della sua persona sono i due film di Aurelio Grimaldi "Nerolio - Sputerò su mio padre" (1996), dove il poeta à impersonato con impressionante somiglianza da Marco Cavicchioli, e "Un mondo d'amore" del 2002.

Il film forse più noto su Pasolini rimane però quello realizzato nel '95, a vent'anni dalla morte, da Marco Tullio Giordana, "Pasolini: un delitto italiano". Strutturandolo come una docufiction d'inchiesta d'impianto poliziesco, Giordana indagava tutte le contraddizioni e le omissioni della versione ufficiale, e pur non potendo arrivare ad una conclusione certa, sembrava fare propria una celebre frase pasoliniana sulle stragi italiane: "io so, ma non ho le prove". Il dato più interessante dal punto di vista linguistico è che qui Pasolini non si vede mai; la scelta è quella di rappresentarlo di spalle, o in ombra, un po' come avveniva con il Cristo dei kolossal hollywoodiani, così distanti da quello del "Vangelo secondo Matteo" pasoliniano.

Ma ora con Abel Ferrara, è un "poeta maledetto" ad avvicinare un altro "poeta maledetto". Entrambi consapevoli, con Nietzsche, che "quando guardiamo a lungo l'abisso, anche l'abisso guarda in noi".

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