Lino Selvatico, il pittore che cercava sulla tela l’anima delle donne

di GIOVANNA PASTEGA
«Squisito indagatore dell'anima, a traverso le fattezze del volto umano». Così lo storico Pompeo Molmenti definiva Lino Selvatico, uno dei ritrattisti veneti più in voga del primo '900.
Figlio del poeta e commediografo Riccardo Selvatico, sindaco di Venezia alla fine dell'800 ma soprattutto ideatore della Biennale d'Arte, Lino dopo gli studi di giurisprudenza intraprese subito la strada della pittura esordendo alla Biennale del 1899 e poi partecipando a quasi tutte le successive. Proprio attraverso la frequentazione assidua dell'esposizione internazionale d'arte l'artista si collocò precocemente nella linea di rinnovamento che dall'Inghilterra all'Irlanda, dalla Spagna alla Francia, caratterizzò le prime edizioni della kermesse veneziana.
A questo squisito artista, richiestissimo dall'aristocrazia veneziana e milanese per le sue spiccate doti ritrattistiche, il Museo d'arte moderna di Ca' Pesaro ha dedicato la mostra "Lino Selvatico. Una seconda Belle Époque" aperta fino al prossimo 31 luglio. «Questa monografica - spiega la direttrice Elisabetta Barisoni - nasce dalla volontà di valorizzare le raccolte che in passato sono arrivate a Ca' Pesaro grazie alle acquisizioni fatte dal Comune di Venezia nelle varie Biennali. Di Selvatico furono acquistate cinque opere, tra le quali il celebre "Ritratto della Contessa Annina Morosini", “Madre e figlio" e "Cappuccetto grigio", tutte visibili in mostra».
Le tre sezioni in cui è stata articolata l'esposizione, "Donna", "Famiglia" e "Modella", riprendono i temi cardine esplorati da Selvatico nella sua attività di ritrattista dell'alta società. Dai grandi quadri a figura intera, nei quali appaiono le più note dame dell'epoca ritratte nelle eleganti quanto teatrali pose in voga nella Belle Époque, alle immagini più intime e familiari di donne e bambini dallo sguardo malinconico, sino ai piccoli nudi realizzati dal pittore per le sue personali sperimentazioni, in cui la pennellata si spezza intercettando le nuove correnti pittoriche d'oltralpe, tutte le opere di Lino Selvatico rivelano un pittore ancora fortemente legato agli stilemi ottocenteschi e persino settecenteschi, tuttavia capace di interpretarli in modo autenticamente personale, quasi idealizzandone i tratti, ma soprattutto un ritrattista che è riuscito, smarcandosi sia dall'influsso del realismo che dell'impressionismo, a tradurre l'eredità coloristica della scuola veneziana attraverso le suggestioni internazionali respirate nelle varie Biennali d'Arte.
«Selvatico non è uno sperimentatore - spiega Elisabetta Barisoni - ma poco importa. La sua grandezza sta proprio nella capacità di scavare all'interno della propria cifra pittorica e del proprio modo di interpretare il ritratto fin nell'essenza più profonda. Non a caso è stato definito il pittore dell'anima delle donne».
Meno note sono la produzione grafica dell'artista e la sua attività di abile disegnatore, propedeutica ai dipinti o riservata a ritrarre gli affetti familiari: l'amata moglie e i figli. Fu anche uno dei primi a utilizzare la fotografia come elemento preparatorio alla pittura. In una lettera del 1922 al ministro Josè del Prado, che gli aveva chiesto di ritrarre il re Alfonso XIII di Borbone, Selvatico spiega con chiarezza le fasi del proprio lavoro: «Io sono solito di studiare, da prima, il soggetto che devo ritrarre, attraverso parecchi diversi disegni e fotografie, da me stesso tratte dall'originale col quale giungo così a familiarizzarmi. Poi, nella tranquillità raccolta del mio 'atelier', cerco di fissare sulla tela il ricordo sintetico della persona che mi è ravvivato da quei documenti».
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