Lino Capolicchio: «Del collegio a Trieste ricordo la bora. E in dialetto mi dicevano “te zerchi longhi”»

TRIESTE Dice che ha fatto l’amore con un sacco di donne ma molte di più sono quelle che ha rifiutato. La più famosa? Forse Dominique Sanda, l’attrice francese che è stata la bella e affascinante Micol nel ‘Giardino dei Finzi Contini’ di De Sica. «Dopo dieci giorni di riprese mi disse chiaro e tondo che voleva venire a letto con me. La volevano tutti, in quel film c’era anche Fabio Testi e lei aveva detto sempre di no, preferiva me. Rifiutai, mi aveva fatto sentire un uomo oggetto».
Lino Capolicchio, sex symbol involontario, come lo definisce Domenico Monetti nell’introduzione al suo memoir “D’amore non si muore” (Rubbettino, 256 pagg., euro 18) si racconta a ruota libera. Donne, incontri con mostri sacri della scena, episodi di una vita che gli ha regalato grandi soddisfazioni sullo schermo e in teatro, come attore e regista. Ora va verso gli ottant’anni, ma nell’immaginario ha sempre la faccia bella, da efebo malinconico che aveva quando era l’innamorato deluso della ebrea Micol descritta nel capolavoro di Bassani. Un viso dolce e un po’ ambiguo che fece esclamare ad Anna Magnani «Lino, attento ai froci». Attore feticcio di Pupi Avati («per me è stato come un padre, col mio non ho mai avuto un buon rapporto») di cui è stato l’alter ego in “Jazz band” e “Cinema!”, molti pensano che sia nato a Bologna, e invece è di Merano, padre della Val Chiavenna e madre istriana.
C’è molto nord est nel memoir di Capolicchio, non chiamatela autobiografia perché, mette in guardia Monetti, qui conta la verità emotiva e non quella fattuale. Un bel distinguo, un’allerta per il lettore, come è giusto che sia perché la memoria più che ai ricordi reali è legata all’emozione vissuta. Riavvolgendo il nastro si parte da un paese vicino Pola, Gallesano, dove era nata mamma Eufemia che un giorno, in vacanza sulle Dolomiti, conosce Andrea e se ne innamora. Lui è già sposato, ma a lei non importa. Dalla loro unione nel 1943 nasce Lino, che non è un diminutivo, all’anagrafe è registrato proprio così, e a guerra finita alla famiglia si aggiunge la nonna, esule dall’Istria jugoslava. «Mio padre non mi ha mai accettato fino in fondo», ricorda Capolicchio. Così il piccolo Lino è spedito verso le fredde camerate dei collegi. Prima a Cividale, poi a Gorizia infine a Trieste. «Era il 1958. Il mio collegio si trovava al Ferdinandeo e andavo a scuola al “Volta”, ma le materie non mi interessavano per niente. Io avrei fatto il classico, ma chi andava in collegio veniva iscritto in una scuola tecnica. Di quell’anno a Trieste ricordo la bora, che mi spingeva indietro mentre salivo verso San Luigi, e il dialetto. Mi sono rimaste impresse alcune espressioni che mi piacevano molto: “non la stia sburtar” e “te zerchi longhi”».
Trieste ritornerà in qualche modo altre volte nella vita di Capolicchio, attraverso gli incontri portati dal suo mestiere. «Giorgio Pressburger, che mi aveva diretto in un “Woyzeck”, mi faceva bere litri di birra perché voleva che diventassi grasso. Io, che sono sempre stato magro, ero arrivato a pesare 72 chili». E poi Strehler, «un regista che voleva bene agli attori, nonostante gridasse loro di tutto, mentre Ronconi no, lui non li amava». Poi l’incontro con altri due triestini, Tiberio Mitri e Fulvia Franco in occasione del film “Pugili”, suo esordio alla regia cinematografica che nel 1997 gli valse il premio come miglior film al festival di Torino. «Quando lo conobbi, Mitri era ancora abbastanza in sé. Poi lo arrestarono per qualche affare di cocaina e andavo a trovarlo in carcere a Firenze. Era contento, mi diceva “ciao mulo, come xe?”. Negli ultimi anni era sempre più annebbiato. Suonavo il campanello della sua casa di Trastevere quando sapevo che c’era, ma non rispondeva, era via di testa. Invece Fulvia Franco lavorava in un negozio di scarpe dalle parti di via Veneto. Aveva paura del ritratto che ne avrei fatto nel film. Mi avevano calunniato, mi confidò, avevano detto che Tiberio perse con Jack La Motta perché ero stata io a stancarlo prima del match, ma non era vero, La Motta era più forte. Un giorno mi disse che voleva farmi vedere il vestito di miss Italia, ce l’aveva ancora, ma poi non se la sentì, era molto malata».
Stranamente, per un attore che ha fatto di tutto, Capolicchio non ha mai recitato a Trieste: «Già, non è capitato, ma ho fatto la regia di una Bohème alla sala Tripcovich l’anno che il Verdi era in ristrutturazione. Durante le prove ho abitato per quaranta giorni in un bellissimo appartamento che una signora mi aveva concesso. Non volle che le pagassi l’affitto, era una mia ammiratrice. Per ringraziarla le feci avere una bottiglia di champagne».
Torniamo alle donne. Seduttore davvero involontario? «È così. Io non ho mai dovuto corteggiare una donna. Mi si buttavano letteralmente addosso». E lei? «Ha presente quando le offrono un cioccolatino? Ne rifiuti uno, poi un altro, ma al terzo dici: perché no?». Due mogli, alcune storie lunghe, una con Delia Boccardo, un’altra con Mia Martini («voleva vivere con me, ma non me la sentivo, al tempo mio figlio aveva tre anni»), ma la storia più incredibile riguarda un ruolo mancato, il protagonista di “Profondo rosso” doveva essere lui. Dario Argento gli mandò il copione, ma doveva decidere in fretta, lui per finire di leggerlo se lo portò dietro partendo per un viaggio e lo gettò sul sedile posteriore dell’auto di un’amica. I due ebbero uno spaventoso incidente, la donna finì in coma, a Capolicchio andò meglio ma non potè girare il film, la parte la ebbe David Hemmings. Mesi dopo, quando l’amica uscì dall’ospedale, per superare il trauma dell’incidente volle che Capolicchio la accompagnasse a recuperare la macchina, e tra le lamiere contorte scoprirono il copione di “Profondo rosso” inzuppato di sangue. «Una storia che meriterebbe un film».
Al cinema Capolicchio non ci va, la tv non la guarda, dice che la pubblicità, che lui si è sempre rifiutato di fare, ha ucciso tutto. «Guardo solo film muti. Amo i maestri della forma, John Ford, Bergman. La forma è importante. Anche in cucina non sopporto un piatto che non sia esteticamente perfetto, sono capace di rimandarlo indietro. Come l’acqua. Deve essere a temperatura ambiente». Manie di un attore che quando uscirà di scena ha già detto che vuole lasciare dietro di sé la battuta finale di Amleto: il resto è silenzio. —
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