“L’infinito di amare”, ultimo messaggio di Claudio Perroni

La nave di Teseo pubblica il romanzo che l’autore aveva consegnato prima di suicidarsi il 25 maggio dell’anno scorso



È un anno che Sergio Claudio Perroni è scomparso. Scelse di suicidarsi il 25 maggio del 2019. Aveva 63 anni. Ma prima consegnò due manoscritti a Elisabetta Sgarbi. Uno di questi oggi è un libro, “L’infinito di amare” (La Nave di Teseo, pagg. 138, euro 13), un romanzo di difficile catalogazione: psicologico, poetico, evocativo? Perroni era un ottimo traduttore, soprattutto dall’inglese, bellissima la sua traduzione di Foster Wallace, di professione faceva (anche) l’editor, ma non aveva mai pensato di diventare un vero e proprio romanziere, almeno fino al 2007 con la sua prima prova narrativa: “Non muore nessuno”. Aveva un debole per la poesia, come dimostra il suo testo “Entro a volte nel tuo sonno”, sempre edito da La Nave di Teseo nel 2018, una raccolta di prose poetiche e come spesso accade talvolta profetiche. Suo era anche il blog “Poetastri.com” dove si faceva beffa dei più autorevoli poeti contemporanei, partendo sempre dall’opera. Ma lì era una faccenda di gusti e spesso aveva torto, ciò non toglie che gli articoli fossero sempre scritti in punta di penna e con un’ironia godibilissima. Era insomma un ossessionato dalle parole e dalla loro perfezione. Una caratteristica che a tratti può diventare anche un limite, perché è vero, tecnicamente è necessario raggiungere il più alto grado di precisione, ma alcune “impurità”, alcuni “abbandoni” talvolta danno linfa alla scrittura. In ogni caso era uno scrittore. Lo conferma questo romanzo postumo, diviso in tre tempi: ieri, oggi, domani. È una lunga concatenazione dello stato emotivo e psicologico di due amanti. Non c’è nome. Non c’è storia. Siamo di fronte a un Lui e una Lei e alle loro minime sequenze di stati d’animo, ragionamenti silenziosi, analisi chimiche dei gesti e delle loro evocazioni, tutto nell’arco di una notte. Un romanzo quasi metafisico, o meglio, dove l’idea conta più dell’atto, dove anche la minima flessione di uno sguardo è in grado di evocare un sentimento seguendo un’associazione proustiana. Non c’è storia, appunto, ma in fondo c’è la storia di tutti noi, la nascita e la fine di una sensazione, della sua imprendibilità e quanta parte di ciò che accade sia già fuggito. Perroni era indubbiamente uno che sapeva scavare, che andava istintivamente oltre nella bellezza e negli abissi. Soprattutto in quegli abissi provocati dalla bellezza. “L’infinito di amare” è un testo iniziato, abbandonato e poi ripreso, l’autore ci ha lavorato per circa trent’anni come scrive Cettina Caliò Perroni nella bella testimonianza in fondo al libro. Senza retorica, Cettina spiega la genesi di quest’opera, ma insieme evoca anche l’uomo e in poche righe c’è tutto, l’amore per la sua donna, l’amore per la letteratura e un senso innato di leggerezza e ironia, a volte insufficienti davanti a certi abissi. —

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