L’inferno di Tahar Ben Jelloun in prigione con l’Ulisse di Joyce

La Nave di Teseo pubblica “La punizione”, il racconto delle torture dello scrittore marocchino



“Per aver manifestato con calma, pacificamente, per un po’ di democrazia, sono stato punito. Per mesi, sono stato solo la matricola 10.366. Un giorno, quando non ci speravo più, ho ritrovato la libertà. Infine, ho potuto, come sognavo, amare, viaggiare, scrivere e pubblicare numerosi libri. Ma per scrivere “La punizione”, per trovare le parole adeguate, mi sono serviti quasi cinquant’anni”. “La punizione” (La Nave di Teseo, pagg. 138, euro 17,00) è quella che ha segnato la vita di Tahar Ben Jelloun, il poeta e scrittore marocchino di Fes che per poter tornare con la mente a quei ricordi, a quei lunghi giorni che hanno segnato per sempre la sua giovinezza formando la sua coscienza e alimentando la sua vocazione di scrittore, ci ha messo cinquanta dei suoi 74 anni.

Luglio 1966, l’epoca degli anni di piombo del re Hassan II, “quando un regime fragile aveva paura di ogni contestazione e rispondeva con le armi a tutte le nostre richieste”. Tahar, studente di Filosofia, non ha ancora vent’anni. Mani sporche lo strappano alla madre. Ordini, insulti, «l’educheremo, tuo figlio, faremo di lui un uomo». È l’epoca in cui molti giovani spariscono, in cui si vive nella paura, in cui si parla a bassa voce per timore dei militari pronti a tutto e dei poliziotti in borghese brutali, ignoranti, sgrammaticati. La colpa di Tahar è di aver partecipato, nel 1965, a una manifestazione studentesca pacifica e repressa nel sangue. “Ho visto il volto di una monarchia che ha dato carta bianca ai militari per ristabilire l’ordine con tutti i mezzi possibili. Quel giorno si è definitivamente consumato il divorzio tra il popolo e il suo esercito”.

La cella della prigione è come tutte le celle: muri solidi, afrori disgustosi, odori soffocanti, pane duro come il muro, cibo scarso e di pessima qualità, maglioni con le maniche troppo corte e pantaloni troppo lunghi, aguzzini che puzzano. La punizione inizia dai capelli: via la zazzera nera di quegli anni del twist e del rock. “Sono diventato un’altra persona, ma bisogna che mantenga la mia identità se no sono perduto. Ciò che mi sta capitando riguarda un’altra persona, io sono un prestanome, un doppio, un’ombra. Non devo pensare, mi devo allontanare da me stesso, la mano che scivola sul cranio non è la mia”. Per far passare le giornate, un “evergreen”: costruire muri inutili, in mezzo al campo, un muro costruito e poi distrutto. Un esercizio gratuito di maltrattamento. Ovviamente, quel sacco che pesa tra i venti e i trenta chili va portato a spalla nel momento in cui il sole è più alto e batte più forte. “È la prima volta che il regime si sente contestato. La monarchia non è abituata. Siamo qui come esempio per tutti”. A far compagnia a Tahar è un libro tascabile che gli ha inviato il fratello, l’«Ulisse» di Joyce. “Non ce n’è di più grossi, hai da leggere per almeno un mese!”, scrive il fratello.

L’apoteosi della violenza avviene quando, per “allenamento”, i militari spediscono questi giovani alle “manovre”. «La legge permette fino al 2% di morti, nel vostro caso possiamo arrivare al 5». Le manovre finiscono e Tahar è vivo. Diciotto mesi dopo e una decina di chili in meno, Ben Jelloun torna a casa. È il 28 gennaio 1968. Le peripezie di Tahar non sono finite, nel 1971 schiva - nonostante la convocazione - il colpo di Stato che intendeva rovesciare il re. Un garden-party con il mitra andato parzialmente a segno.

“Sono stato liberato ma non sono libero. Il campo pesa. Lo porto sulle mie spalle. Il romanzo di Joyce è qui con me. Ha l’odore indefinibile della prigionia. Quando lo apro, non leggo. Ricordo. E i ricordi hanno un cattivo odore. Mi scusi, signor Joyce, il suo capolavoro si è mescolato a cose tremende”. —



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