Lindner perse soldi e vita per scoprire a Trebiciano il grande fiume della notte

Continua il viaggio alla scoperta dei segreti del Timavo
Una raffigurazione del passaggio del Timavo a Trebiciano
Una raffigurazione del passaggio del Timavo a Trebiciano

Spengo la lampada frontale e in un istante sono avvolto da un’oscurità densa e materica come un mantello. Il silenzio è assoluto, non fosse per il mormorìo sommesso del fiume Timavo, che scorre laggiù da qualche parte. Mi trovo a 329 metri di profondità, sottoterra, all’imbocco della vasta caverna Lindner, nell’Abisso di Trebiciano. Dopo aver lasciato il fiume fantasma sparire nelle Grotte di San Canziano/Škocjan, avevo fin qui cinque possibilità di ritrovarlo nella sua corsa misteriosa verso il mare, attraverso altrettante “finestre” aperte nel sottosuolo: l’Abisso dei Serpenti, la Grotta delle tre generazioni, la Grotta prima di Kanjaduce, la Grotta nella dolina Stršinkni, la Grotta del fiume di Sesana - tutte in territorio sloveno - e appunto l’Abisso di Trebiciano. Ho scelto quest’ultimo per pura comodità, e perché “il Trebiciano” non è una grotta qualsiasi, ma un vero santuario dell’esplorazione ipogea, un archivio di storie e memorie, un laboratorio scientifico a tempo pieno e un luogo legato a filo doppio con la storia di Trieste. Certo anche le spettacolari voragini dei “Serpenti-Ka›na Jama” ne hanno di cose da dire, cupe leggende da raccontare e vertigini da regalare, per non parlare delle altre cavità dove ferve tutt’ora l’esplorazione dei gruppi speleo sloveni. Ma qui un po’ mi sento a casa, un po’ la considero una tappa ineludibile in questo viaggio lungo il corso del Timavo.

Dalle sorgenti incantate fino al Ponte Cerkvnik sopra il fiume misterioso
Un punte sul Timavo sotterraneo

Al buio, nel cavernone, mi siedo per riprendere fiato sulla sabbia umida della gigantesca duna che sovrasta il breve tratto dove scorre il fiume. Sembra di essere su una spiaggia di notte, accarezzata dalla dolce risacca del mare. E invece sono sul fondo di un abisso che fino al 1925 era la grotta più profonda conosciuta al mondo, e oggi mantiene il primato di culla della speleologia italiana. Sopra di me ci sono duecento e passa metri di scale metalliche stile miniera, che ho appena disceso per arrivare fin qui, sotto quella che sembra la volta di un’immensa cattedrale senza tempo. Fuori, all’aperto, Sergio Dambrosi, presidente della Società Adriatica di Speleologia che gestisce visite e ricerche nell’abisso, mi aspetta nella Stazione sperimentale ipogea, a cinquecento metri dalla casetta che protegge l’entrata della grotta. «Sono iniziate qui le prime ricerche speleologiche, idrologiche e speleosubacquee della nostra regione», mi ha detto con il suo placido atteggiamento da guardiano del faro, prima di aprire la botola d’accesso all’abisso, dalla quale, durante le piene, la pressione dell’acqua sotterranea spara una corrente d’aria fino a 150 chilometri orari. «E dopo due secoli non abbiamo ancora finito», ha aggiunto accendendo l’inseparabile pipa. Per inciso, se volete conoscere questo posto e il suo custode, la grotta si può visitare gratis ogni prima domenica del mese (telefonare . 3385037043), fatte salve esperienza, attrezzatura (dissipatore da ferrata, casco e illuminazione a led) preparazione tecnica e una buona resistenza fisica. Qui dentro, mi ha ricordato ancora Dambrosi mentre infilavo casco e guanti protettivi, sono state dilapidate fortune personali e si sono indirizzate a lungo le speranze di un approviggionamento idrico di Trieste.

Tutto iniziò intorno alla prima metà dell’Ottocento, quando Trieste, diventata ormai una moderna metropoli, cominciò ad avere una gran sete. Le vecchie fonti non bastavano più per dissetare tutti, era necessario trovare acqua in abbondanza. Che il fiume di Trieste corresse sottoterra ovviamente era noto da sempre. Il problema era scovarlo e fare in modo che potesse alimentare un nuovo e inesauribile acquedotto. Da Domenico Rossetti a Pietro Kandler l’idrografia divenne argomento à la page per i dotti triestini del XIX secolo, nonché per ingegneri ed esploratori, funzionari e personaggi curiosi, come il “Re delle grotte” Josef Eggenhöfer. In tutto quel fervore l’abisso di Trebiciano venne scoperto ed esplorato da Anton Frederick Lindner nel 1841.

Dalle sorgenti alle foci il misterioso viaggio del fiume che non c’è

Nato nel 1800 a Montagnana in provincia di Padova, arrivato a Trieste nel 1833 come controllore dell’Ufficio Saggio dei Metalli e Prodotti Montanistici, Lindner fu una delle prime illustri vittime dell’ossessione Timavo. Forte dell’esperienza come cercatore di vene carbonifere nella valle dell’alto Timavo, quando venne a sapere che era stato progettato un acquedotto del costo di un milione di fiorini per rifornire Trieste, si buttò anima e corpo nell’impresa di intercettare il Timavo vicino alla città, e quindi costruire una galleria per portare le sue fresche acque dritto nelle case dei triestini. Grazie alla sua esperienza geologica, Lindner prima - en passant - scoprì la Grotta Gigante, poi, ascoltando i contadini carsici a proposito di “buchi” soffianti nel bosco, iniziò uno scavo nei pressi dell’abitato di Trebiciano. Con stupefacente rapidità in soli cinque mesi, dal 6 novembre 1840 al 6 aprile 1841, assieme a Giacomo Svetina, a colpi di mina e di piccone riuscì ad aprirsi un varco nella roccia lungo i pozzi dell’abisso, fino a spedire il cavatore Luca Kral e il minatore Antonio Arich nella caverna dove scorre il Timavo e che oggi porta il suo nome. Sfinito dall’impegno e dalla fatica, Lindner si ammalò e morì pochi mesi dopo la scoperta, a 41 anni, lasciando la moglie Anna sommersa dai debiti. E il suo progetto di deviare il corso del fiume sotterraneo mediante un ardito sistema di pompe meccaniche - come altri progetti analoghi - rimase lettera morta: agli inizi del ’900 l’acqua per Trieste andarono a prenderla alle sorgenti Sardos, a poche centinaia di metri dalle risorgive del fiume fantasma.

Nella tenebra della caverna Lindner mi alzo, riaccendo la lampada sul casco e arranco sopra la grande duna di sabbia per raggiungere il fiume. Lascio una candela accesa sull’antico cassone di legno che un tempo conteneva gli attrezzi per costruire le barche utili a navigare nel lago Timeus, là dove il Timavo appare e scompare nell’ignoto, e mi dirigo proprio da quella parte. Grazie ai passamano che indicano la via scavalco i sabbioni e presto sono sulla sponda del fiume, che gorgoglia fra le rocce. A un tratto in una piccola pozza spunta un proteo, l’anfibio cieco ritenuto in epoche remote il cucciolo di un drago, e che in realtà è il più simpatico fra i “marcatori biologici” del fiume. Mi sposto verso il lago dentro le cui acque scure, oggi, si concentrano le nuove esplorazioni: fra il 2013 e quest’anno gli speleosub francesi della National Cave Diving della Fédération française d'études et de Sports Sous-Marins, assieme agli speleo della Società adriatica di Speleologia responsabile del Timavo System Project, andando dove nessuno era mai stato prima hanno seguito in immersione un ampio tratto delle gallerie allagate, scoprendo che da quella parte il fiume, a sorpresa, punta a Ovest invece che a Est, come logica vorrebbe. Un altro mistero fra i tanti, rimugino mentre guardo brillare in lontananza la fiammella della candela che segna il punto dal quale partire per tornare in superficie.

(3 - Continua. La precedenti puntate sono uscite il 2 e il 9 agosto)

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