Li chiamavano “matti” Tornano le testimonianze dal manicomio di Gorizia

Elisabetta De Dominis



«Ho trentatrè anni. È cominciato tutto con un festino… tra me e lui c’è stato un colpo di fulmine. Ci siamo incontrati con gli occhi e siamo stati attratti come da un fluido che andava al cuore. Il nostro è stato un rapporto solo platonico. Eravamo entrambi fidanzati; ero depressa». Invece con il secondo, racconta Milvia C. ricoverata nell’ospedale psichiatrico di Gorizia nel 1965: «È stata una cosa forte, come un fuoco… fu qualcosa di divino, di mistico. Ma anche lui non era libero, mi sono staccata da lui e mi sono accorta che potevo comunicare con tutti… ascoltavo la radio e quelli della radio mi sentivano… La Rai tv è sotto controllo dei russi e dei cinesi… Hanno scritto: schizofrenica. Può aver influito su di me il fatto che un tedesco ha cercato di violentarmi durante la guerra? Avevo tre o quattro anni».

Questa struggente testimonianza è una delle tante raccolte nei manicomi di Gorizia e Arezzo tra il 1968 e 1977 dalla ricercatrice e storica Anna Maria Bruzzone in “Ci chiamavano matti”. Ora il Saggiatore ha ripubblicato questo saggio inchiesta, a cura di Marica Setaro e Silvia Calamai che lo hanno ampliato con testimonianze di interviste inedite. Vincenzo Compagnone ne parlerà con Marica Setaro, a èStoria domani alle 9.30 (tenda Apih, parco Basaglia).

Da queste testimonianze si capisce che molti rinchiusi e liquidati come matti, prima dell’arrivo di Basaglia a Gorizia, erano piuttosto degli infelici. Chi ha sofferto per amore, chi non è riuscito a trovare una strada diversa da quella imposta dalla famiglia, chi ha avuto la casa distrutta dalla guerra, chi ha dovuto abbandonarla, in Istria e Dalmazia, fuggendo dai titini. Già nel 1962 l’Ospedale Psichiatrico di Gorizia aveva dato “la parola ai matti” facendoli scrivere sul giornale Il Picchio. Dalle richieste e proposte pubblicate i malati non sembrano così “picchiati in testa”, come sino ad allora si era voluto far credere. F. scrive: «Ciò che lascia molto a desiderare sono i giochi e i passatempi a nostra disposizione»; B. non è soddisfatto del vitto, propone di organizzare gite e costituire una squadra di calcio. Ma tutti in fondo hanno una gran nostalgia della propria casa alla quale non possono tornare: «Adorata e bella casa mia, ti rivedrò io ancor?».

Conferma alla Bruzzone Federico Z. che «i familiari non vogliono più chi è stato in un ospedale psichiatrico perché se ne vergognano. Mia moglie diceva che la picchiavo; avvenivano dei litigi tra noi, ma non l’ho mai picchiata. Per otto volte mi hanno fatto l’elettroshock. Ora non più. Qui insegno ginnastica, una volta facevo il calciatore». Maria G. racconta che è lì da 13 anni e i familiari non vengono mai a trovarla: «È il dolore che mi distrugge di più». Augusto M. per entrare a lavorare nelle cooperative operaie aveva dovuto prendere la tessera del partito fascista. Poi era stato 28 mesi in marina. Nel ‘42 venne richiamato nella milizia e nel ‘43 arrestato e portato in un campo di concentramento in Germania dove rimase 18 mesi. Finita la guerra, tornò a lavorare alle cooperative operaie per dieci anni. Fu ricoverato all’ospedale psichiatrico dopo un esaurimento nervoso e le discussioni con la cognata. Come scrisse Alejandro Jodorowsky la famiglia può essere un tesoro ma pure un tranello. —

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