L’epica di Fattori, dai campi militari alla natura

Sobriamente altero, con un folto ciuffo di capelli castano scuri, tavolozza e pennelli in mano, volto di tre quarti e sguardo diretto verso di noi: così si presenta Giovanni Fattori nel suo primo autoritratto del 1854.
La grandezza della sua arte, insieme ai luoghi, i fatti e le persone che si succedettero nel corso della vita di questo straordinario protagonista dell'arte europea della seconda metà dell'Ottocento, vengono ripercorsi in un'importante mostra antologica a Palazzo Zabarella di Padova, aperta al pubblico da sabato 24 ottobre fino al 28 marzo.
Curata da Francesca Dini, Giuliano Matteucci e Fernando Mazzocca, propone oltre cento opere in un percorso tematico e cronologico che abbraccia la pittura di storia, la rivoluzione macchiaiola, i ritratti, le incisioni.
Nato a Livorno nel 1825, Fattori si trasferisce a Firenze per seguire gli insegnamenti di Giuseppe Bezzuoli e iscriversi all'Accademia. Lì inizia a frequentare il caffè Michelangelo, luogo di ritrovo di patrioti, letterati e artisti che come lui cercavano di dar voce a nuove sperimentazioni nel campo della pittura. Nel desiderio di provare nuove soluzioni espressive e allo stesso tempo di testimoniare attraverso la pittura ciò che gli stava accadendo intorno, tra il '59 e il '60 realizza una serie di tavolette che raffigurano le truppe francesi sbarcate nel porto di Livorno, quindi giunte a Firenze per sostenere i patrioti italiani. Macchie di colori puri, veloci pennellate dense di luce descrivono in modo estremamente efficace l'impressione del momento.
Dopo aver vinto il premio Ricasoli con il bozzetto per “Il campo italiano dopo la Battaglia di Magenta”, dove sceglie di cogliere dalle retrovie l'atto conclusivo dello scontro, mettendo sullo stesso piano vincitori e vinti, negli anni Sessanta si dedica al paesaggio. Su piccole tavolette orizzontali che ricordano le antiche predelle quattrocentesche crea autentici capolavori quali “La Rotonda di Palmieri” e “Punta del Romito con barca di pescatori”. La macchia sostituisce il disegno, il colore compone la struttura dell'opera.
Ospite dell'amico, e principale teorico della nuova pittura macchiaiola, Diego Martelli a Castiglioncello ha modo di dipingere all'aria aperta insieme ai pittori Giuseppe Abbati e Odoardo Borrani, come iniziavano a fare negli stessi anni gli impressionisti francesi. Ma se i ritratti di Diego e sua moglie Teresa danno l'immediata sensazione di un caldo pomeriggio estivo trascorso all'ombra dei lecci, le opere che hanno per soggetto principale la Maremma, i buoi, i butteri assumono una valenza mitica, quasi epica, nella dimensione unica che mette in rapporto diretto uomo e natura.
Ritornerà quindi a dipingere scene militari creando nuovi grandi capolavori come “Il muro bianco”, che per il senso di sospensione e l'essenzialità della visione a molti pare anticipare le sequenze del film "Il deserto dei Tartari". O “Lo staffato” dove sembra riassumere tutta la delusione per quella "rivoluzione mancata" rappresentata dal Risorgimento, quasi a commento di ciò che scriverà poi nelle sue memorie: «Io, vecchio livornese, sto ancora col '48... fortuna che ho 80 anni, non vedrò per lungo tempo questo marciume della società presente».
©RIPRODUZIONE RISERVATA
Riproduzione riservata © Il Piccolo