Leonor Fini, la donna gatto che imparò a mascherarsi per scappare da suo padre

di Alessandro Mezzena Lona
Sapeva parlare appena, Leonor Fini. Quando scoprì che, nella vita, per restare fedele a se stessi bisogna imparare a fingere. A mascherarsi, a cambiare volto. A recitare ogni giorno una parte diversa. Sua madre si era da poco trasferita a Trieste. In Argentina aveva lasciato il marito Erminio e un rapporto di coppia che le risultava sempre più stretto. Tra i fantasmi della gelosia e un maschilismo troppo invadente.
Ma lui, Erminio Fini, non si voleva rassegnare. E un paio di volte aveva scavalcato l’oceano per provare a riprendersi Eleonora, sua figlia. Non certo una moglie come Malvina. Troppo indipendente, troppo triestina. Quel padre assente e possessivo si era spinto a macchinare il rapimento pur di non rinunciare alla bambina. Ma gli era andata male.
Così Malvina, terrorizzata di perdere Eleonora, che in casa chiamavano Leonor, o con il vezzeggiativo Lolò, inventò un gioco per sua figlia. «Faremo come a Carnevale, ricordi?». Decise che lei e la bambina si sarebbero travestite. Per sfuggire ai sicari dell’ex marito. Per sentirsi un po’ più tranquille. Così, i bei capelli lunghi di Leonor lasciarono il posto a un caschetto: «Come quello di un piccolo paggio alla corte dell’imperatore». Non poteva mancare, abbinato a quell’acconciatura, un vestito da marinaretto.
Era la prima volta che Leonor Fini imparava ad essere altro-da-sé. Un personaggio costruito ad arte. Un possibile doppio da utilizzare quando le veniva a noia la bambina di buona famiglia. Ecco, forse in quel momento prese forma quella che, un giorno, sarebbe stata vista come una strega. Una ragazza eccentrica ed eccessiva, una donna fuori dagli schemi. la grande pittrice che avrebbe sedotto Parigi e i circoli surrealisti.
Un personaggio che, ancora oggi, affascina tutti quelli che sentono raccontare la sua vita. Al punto che Corrado Premuda, scrittore e giornalista triestino, e Andrea Guerzoni, disegnatore di Torino, hanno deciso di trasformare Leonor Fini in una storia per ragazzi. Limitandosi a seguire, con grande attenzione e ricchezza di episodi, gli anni della fanciullezza, dell’adolescenza e della giovinezza. Fino alla partenza da Trieste per Milano, e poi per Parigi.
Ha preso così forma un libro che potranno leggere con grande gusto e interesse non solo i ragazzi. Si intitola “Un pittore di nome Leonor”, lo pubblica Editoriale Scienza (pagg. 83, euro 12,90), alterna al testo di Corrado Premuda i disegni di Andrea Guerzoni.
Amica di Arturo Nathan e Gillo Dorfles, ma anche di quel genio incompreso di Ettore Schmitz, che avrebbe cambiato le sorti del romanzo novecentesco con lo pseudonimo di Italo Svevo, Leonor Fini aveva imparato a fare coriandoli delle regole e delle convenzioni borghesi. Fin da quando era bambina. Tanto che lei stessa ammetteva di apparire agli occhi dei benpensanti come una moderna strega: «Hanno paura di me perché faccio i sortilegi a uomini e donne. Io li guardo e quelli mi seguono!».
Ma con che occhi guardava uomini e donne che le capitavano a tiro? Con le pupille a fessura dei gatti, diceva lei stessa. Con lo sguardo innocente e magico di quegli esseri fantastici dotati di baffi e coda che aveva imparato ad amare fin da quando era bambina. E pretendeva che sua madre, se travestiva lei da marinaretto, applicasse all’adorato Cioci, il micio di casa, delle ali colorate da farfalla. Del resto, non era nata lei stessa da una donna e da Sua Maestà il Gatto?
Dietro quello sguardo malandrino, che non tollerava di essere imbrigliato, c’era sempre la voglia di stupire. Perché Leonor era quella che a scuola non avrebbe mai trovato il proprio giusto posto. Che avrebbe convinto il cuginetto a lanciare le ciliegie mangiucchiate a metà nel balcone dei vicini, aspettando di vedere se loro andavano a mangiarsi gli avanzi. Che, una volta scoperto il mondo dei morti, avrebbe trascinato l’amica del cuore all’obitorio. Per provare a capire che cosa vuol dire starsene lì distesi, rigidi, freddi, senza più parlare. Ma per imparare anche a disegnare dal vero. Ad affinare quel talento naturale che l’avrebbe portata a diventare una delle grandi ritrattiste del Novecento.
Ecco, l’arte, appunto. Leonor si era convinta presto di avere trovato la strada giusta per sé. Ma doveva vincere le resistenze della famiglia. Anche perché l’inflessibile zio, fratello di sua madre, quando venne rimandata a settembre in tutte le materie decise di spedirla per l’estate in Carnia. Lontana dal mare. Lontana da quelle spiagge cittadine dove, qualche tempo dopo, il grande Henry Cartier Bresson la fotograferà in posa da femme fatale in compagnia dello scrittore francese André Pieyre de Mandriagues.
Ma ci voleva altro per piegare quel caratterino fatto di fil di ferro. Quella ragazza capace di incantare un solitario come Arturo Nathan, l’artista che aveva iniziato a dipingere per vincere le proprie nevrosi. Un uomo schivo, geniale, che l’avrebbe introdotta all’«Intrepretazione dei sogni» di Sigmund Freud, di nascosto dallo zio. E che avrebbe svelato per lei il fascino di filosofi eretici come Friedrich Nietzsche e Arthur Schopenhauer. Ma a incantarla, ancor di più dei libri, sarebbe stato il suo modo di dipingere. Paesaggi dell’anima, pieni di simboli e rimandi arcani. E l’autoritratto dove lui appariva con gli occhi chiusi, un lenzuolo bianco a incorniciargli il volto. Come il guru di qualche credo sconosciuto.
L’estroso Vito Timmel, la sognatrice Linuccia Saba, che con i suoi racconti onirici le ispirava disegni bellissimi. E poi, attorno a Leonor ruotavano anche Leo Krauss, che sarebbe diventato Leo Castelli, il gallerista della Pop Art a New York, e Bobi Bazlen, il rabdomante dell’editoria italiana. Amica inseparabile era Felicita Frai, la pittrice che arrivava da Praga. Bella, bionda, pronta a prendersi gioco delle rigide regole che la società imponeva ancora alla donne. «Ricorda bene la lezione, Felicita - diceva sarcastica Leonor -. Non dobbiano toglierci il cappello in pubblico né andare al gabinetto a teatro o al cinema, dobbiamo tenere le gambe ben unite stando sedute, non dobbiamo voltarci né urtare la gente per strada e tanto meno sudare».
Ma quella Trieste, passata dall’Impero austroungarico a un’Italia che si rivelava assai poco affascinante, cominciava a diventare stretta per Leonor Fini. Che decise di andare prima a Milano, diventando l’allieva del cuore del pittore Achille Funi, e poi a Parigi. Sulle tracce dei surrealisti. Portandosi dietro l’amore per i felini, per i travestimenti, per il mistero, e la voglia di stupire. Sempre.
Perché lei era Leonor Fini. l’artista. La donna gatto.
alemezlo
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