Leonard Cohen, immenso poeta degli anni ’70 e ’80 e romanziere trasgressivo

il personaggio
A lui il Premio Nobel non l’hanno dato. Eppure, nulla togliendo a Bob Dylan, si trattava di un grande cantante che, prima di tutto, aveva un posto importante nella storia della letteratura canadese. Perché questa è la cifra artistica di Leonard Cohen, autore di alcune fra le più belle e indimenticabili canzoni degli anni Settanta e Ottanta, poi divenute un’icona del più alto connubio fra musica e letteratura.
Chi non ricorda “Halleluja” o “Dance me to the end of love”? Opere d’arte rientrate poi nel repertorio delle massime star euroamericane, da noi ascoltate nell’intimità delle nostre case come pure sui set immensi dei suoi concerti.
Quando, agli inizi degli anni Settanta, Cohen irruppe sulla scena della canzone pop, pochi lo conoscevano. Ma poi comparve al Festival dell’Isola di White, in Inghilterra del sud, e portò una straordinaria ventata innovativa, fatta di follia e di trasgressione ma luminosa come una cometa. Cantò davanti a seicentomila giovani (era il 31 agosto 1970 e c’era anche chi scrive), aggressivi e pronti a sfasciare tutto, infastiditi da una micidiale pioggia che durava da tre giorni. Giovani che egli ammansì come un incantatore di serpenti.
Cohen è un mito, lo sappiamo. Basti citare, fra i suoi album, Songs from a Room, del 1969, che contiene quell’immenso inno alla libertà intitolato “Birds on the wire” («come un uccello sul filo/ come un verme sull’amo/ come un cavaliere in un vecchio libro»), New Skin for the Old Ceremony, del 1974, con il famoso testo ”Chelsea Hotel #2” ambientato nel tempio della scelleratezza bohémien nuovayorkese, dove si davano appuntamento Bob Dylan, Jimi Hendrix, Patti Smith, ma anche scrittori come Dylan Thomas e Arthur Miller in un mix infuocato di musica e alcol.
Sino agli ultimi album Various Positions, del 1984, una splendida conchiglia musicale con al centro non una ma due perle: “Halleluja” e “Dance me to the end of love” («conducimi con la danza fino alla fine dell’amore»); I’m your Man, del 1988, con l’amarissima “Everybody knows” («tutti sanno che i dadi sono truccati/ tutti sanno che i buoni hanno perduto»); a Old Ideas (2008), considerato da tutti il suo canto del cigno.
Cohen muore nel 2016 a 84 anni con alle spalle una carriera con alti e bassi incredibili. Infatti, è osannato e rinnegato allo stesso tempo, specie dalla stampa “perbenista” americana.
Nel 2008, dieci anni prima, esausto per i continui concerti, decide di lasciare (pensate che era arrivato a vendere, solo di “Halleluja”, 150.000 copie al giorno. Ma la vita gli riserva ancora una spiacevole sorpresa: la sua agente Kelley Linch gli sottrae tutto il suo patrimonio. E a lui non resta che tornare a produrre musica, dandoci altri indimenticabili testi musicali, da Popular Problems a You Want it Darker.
Ma Cohen non fu solo un cantautore. La sua produzione letteraria poetica e narrativa, infatti, è cospicua.
Oltre che sulle sue memorabili canzoni, a ragguagliarci su questa dimensione “parallela” dell’arte di Cohen (certo meno nota in Italia) è Silvia Albertazzi, anglista di pregio, docente all’Università di Bologna e precorritrice degli studi post-coloniali nel nostro paese, nel suo ultimo bel libro: Leonard Cohen. Manuale per vivere nella sconfitta (Edizioni Paginauno, pagg. 235, euro 19,00).
Lo presenterà domani alla Libreria Minerva di Trieste (ore 18), con ascolto di brani, e sarà certamente interessante scoprire anche l’aspetto meramente letterario di Cohen, che oltre alle tante raccolte di versi, annovera romanzi molto trasgressivi. —
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