“L’enigma della camera 622” di Joël Dicker con i suoi intrighi passa anche per Trieste
TRIESTE Una vacanza con molti colpi di scena, dentro un Grand Hotel sulle Alpi Svizzere: è quello che promette il nuovo thriller di Joël Dicker, “L’enigma della camera 622” (La Nave di Teseo, pagg. 648, euro 22). Ricordate il bestseller “La verità sul caso Harry Quebert”, tradotto in 33 lingue, più di 2 milioni di copie vendute? Era il 2012, lui era un simpatico, giovanissimo esordiente: appena 27 anni. Ora, otto anni e quattro libri dopo, rieccolo con quello che potrebbe essere il giallo dell’estate, tra banchieri ginevrini, colazioni a base di uova alla coque e caviale (e un bicchierino di vodka), belle donne bionde, patrimoni e amori che svaniscono in un soffio. Ma in realtà, dopo un inizio che ci trasporta tra i lussi e i segreti di un grande albergo tra le vette (potrebbe essere il set di un film di Wes Anderson), il romanzo si complica, indizi e contro-indizi arrivano a valanga, e a un certo punto ci chiediamo come pensi di venirne fuori l’autore, perché noi ci siamo già persi. Peccato, anche perché Dicker è riuscito a costruire un romanzo dentro il romanzo: il protagonista è lui, uno scrittore che vuole dedicare il suo prossimo libro al suo editore francese, Bernard de Fallois, da poco scomparso (e queste sono tra le pagine più commosse). In cerca d’ispirazione, e triste per una delusione d’amore, prenota una vacanza al Palace de Verbier. Lì incontra una bella sconosciuta che lo sfida: lei, che è uno scrittore, non si è chiesto perché le camere accanto alla sua passano da 621 a 623, lasciando un’incongrua 621bis? L’enigma della camera 622, appunto, dove quindici anni prima era stato ucciso un banchiere, ma l’assassino non è mai stato trovato…
È successo davvero? Dicker è davvero andato in vacanza in un Grand Hotel sulle Alpi, e ne è tornato con un nuovo romanzo? Forse no, forse è un gioco di specchi e finzioni. Ma non importa. L’importante è scrivere, raccontare ancora una volta una storia, e dedicarla al vecchio, elegante editore scomparso e rimpianto.
La cosa buffa è che, dopo tanti thriller ambientati nel Maine (dove Dicker passava le estati, da ragazzino), questo è tutto, o quasi, dentro i confini svizzeri. Con continui salti e flashback nel passato, e tante, tantissime pagine su Ginevra, dove Dicker è nato e vive, e dove non aveva mai portato i suoi lettori. Tempo fa, in un’intervista, mi aveva detto: “Non mi sento ancora pronto per ambientare un libro a Ginevra. Penso che infilerei in ogni pagina i miei amici, il cameriere del mio bar, il postino! Ma forse, chissà, un giorno riuscirò a creare una Ginevra di pura immaginazione”. Ed eccola qui, la sua Ginevra, vera o immaginata, con i croissant al cioccolato del mattino. Anzi, i croissant aperti, tagliati a metà, con dentro burro e quadrotti di cioccolato: un ricordo d’infanzia. E soprattutto c’è lui con i suoi riti, quasi un vederlo all’opera: alzarsi all’alba, fare jogging, e scrivere fino a sera, gli appunti per non perdersi nel labirinto dei suoi personaggi. C’è persino un accenno a Trieste: il fascinoso protagonista, Lev Levovitch (o meglio: uno dei protagonisti), racconta che i nonni paterni erano originari di San Pietroburgo, ma la madre era nata – per caso – sul golfo. “Suo padre era oculista, aveva lasciato l’Ungheria a piedi per andare a studiare medicina a Vienna, prima di sistemarsi con la moglie a Trieste, dove è nata mia madre. Poi si sono trasferiti a Smirne, che allora era greca, dove imperversava una rara malattia degli occhi”. Vero, o falso? Trieste arriva a un terzo del libro, quando ci siamo già persi nel dedalo di doppie e triple personalità, di segreti che ne racchiudono altri, come un gioco di matrioske. Però l’accenno, anche se di sfuggita, a Trieste, ci fa ben sperare: chissà, magari per il suo prossimo romanzo Dicker punterà il dito sull’atlante, e finirà sul golfo. Misteri e grandi alberghi ne abbiamo. —
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