Lei cieca, lui invisibile: è l’amore di “Mon Ange”

TRIESTE. Una lezione d’amore e una lezione di cinema. Questo è l’emozionante “Mon Ange”, terza regia del belga Harry Cleven, film clou oggi a Science+Fiction (ore 20, Sala Tripcovich). Osannato a Sitges, scritto da Thomas Gunzig e prodotto da Jaco Van Dormael (la coppia di “Dio esiste e vive solo a Bruxelles”) “Mon Ange” è una bellissima storia d’amore fra un ragazzo invisibile e una ragazza cieca, timidi e innamorati dirimpettai in uno scenario odierno, ma astratto, di campagna.
I trucchi sono quelli semplici e teneri del film di Salvatores, effetti abbastanza speciali da farci credere (sorridendo) alla magia. Il padre del ragazzo invisibile era un mago che sapeva sparire, e anche la regia è un po’ magica, perché elementi impalpabili come tende, lenzuola, foglie, gocce d’acqua servono a farci vedere, sentire, toccare chi non c’è. Ma qui non siamo nel terreno teenager della commedia fantastica o del fantasy romantico alla Tim Burton o “Casper”.
“Mon Ange” invece ha l’ambizione di seguire la tradizione d’autore francese, tipica della Nouvelle vague, ossessionata dalla crescita adolescenziale e dall’”amour fou”. Sembrerebbe di essere in una storia di Rohmer o Truffaut, con due giovani solitudini che si sfiorano in una passione tanto intensa quanto complicata, allo stesso tempo cerebrale e sensuale. Ma il regista non teme di andare oltre, avventurandosi in una storia paradossale, in cui vediamo lungo tutto il film un solo personaggio, la ragazza cieca Madeleine, che non può vedere chi la sta guardando e amando, cioè il ragazzo invisibile, che comunque lei non potrebbe vedere. Lui però incarna (si fa per dire) l’unico punto di vista del film (e il nostro di spettatori) che genera tutta la storia.
“Mon Ange” diventa allora una semplice ma esemplare metafora del cinema stesso, che ci induce a credere anche a ciò che non è possibile (come accade alla ragazza cieca), e che presuppone, all’interno delle storie che vediamo, un punto di vista (l’occhio della cinepresa) necessariamente invisibile. In questa declinazione essenziale e moderna di archetipi favolistici come “La bella e la bestia” e “Il fantasma dell’opera”, l’amore (impossibile?) fra i due ragazzi menomati cresce e si sviluppa magneticamente in un contesto minimo e archetipico, quasi favolistico appunto, di elementi scenografici (la grande casa, il giardino, il bosco, il lago). Non c’è mai noia in questa vicenda così concentrata, con soli due protagonisti di cui uno soltanto visibile, perché tanti sono gli accadimenti, il tempo passa, Madeleine cresce (grazie a diverse attrici) e allo stesso tempo non cambia. “Mon Ange” è uno struggente elogio dei sensi e dei sentimenti, dove anche noi finiamo per credere di vedere, annusare, toccare qualcuno che esiste solo in una dimensione poetica.
Sempre domani a Science+Fiction, a seguire in Sala Tripcovich (ore 22.15) “Kill Command” ci riporta invece nella fantascienza contemporanea, nel filone “cyberpunk” del rapporto uomo-macchina e della dipendenza dalla tecnologia. Esordio dietro la macchina da presa del mago britannico degli effetti speciali Steve Gomez, il film (presentato al Toronto After Dark) racconta di una squadra militare d’elite assoldata per compiere esercitazioni su un’isola. Ma i marines non accettano di buon grado l’affiancamento di un tecnico delle macchine, perché egli stesso è in buona parte una macchina.
Il confronto problematico con la tecnologia, col conseguente deterioramento dei rapporti sociali, ispira anche l’indipendente Usa “Creative Control” di Benjamin Dickinson (ore 17.30, Sala Tripcovich), premiato al South by Southwest Festival. E’ una declinazione di “Her” di Spike Jonze, in cui il protagonista, invidioso della fidanzata del suo migliore amico, crea per sé un avatar di lei.
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