Le Piccole donne affrontano la vita andando avanti e indietro nel tempo



Le regole per un ottimo romanzo: dev’essere innanzitutto audace e, se ha per protagonista una ragazza, che questa si sposi entro la fine del libro o altrimenti muoia. Se i consigli dell’editore Dashwood a Jo March suonano spiritosi, per le nuove “Piccole donne” Greta Gerwig ha fatto sua soprattutto l’audacia. Quello della 36enne artista californiana è un nome che si è fissato nella mente di tanti spettatori: l’immagine di lei nei panni della danzatrice newyorkese “Frances Ha” già aveva colpito nel segno, raccontandosi poi in prima persona nell’esordio da regista, il premiatissimo “Lady Bird”.

Il fatto di misurarsi con un classico maestoso e “pesante” della letteratura come l’opera di Louisa May Alcott del 1868, che è romanzo familiare, di formazione, sentimentale, pedagogico, per di più tradotto per lo schermo, grande e piccolo, da fior fiore di trasposizioni – capisaldi, il film del 1933 di George Cukor con Katherine Hepburn e Joan Bennet e quello del’49 di Mervyn LeRoy con June Allison e Liz Taylor – non appariva propriamente una passeggiata.

La forza del nuovo “Piccole donne” è di essere basato su una struttura originale davvero ardita, moderna e innovativa costruita com’è in flashback continui, ma che contemporaneamente riesce a rispettare e restituire con intelligenza e potenziata intensità lo spirito del grande classico. Spiazzando, il racconto prende il via infatti in medias res, con le quattro protagoniste già grandi, ognuna alle prese con la propria vita: Jo a lottare per proporre manoscritti vendibili e tirare su qualche soldo, Meg con il matrimonio, Amy in Francia a studiare pittura, Beth malata. Se lo spettatore è facilitato nel rilevare il primo flashback, che va indietro di sette anni, poi la linearità sarà elusa senza avvisi: se non si ha confidenza con il romanzo, non tutti gli accadimenti possono quindi apparire d’immediata lettura. Ma sono proprio questi continui rimandi avanti e indietro nel tempo, oltre a far filare con gran ritmo i 135 minuti di film, a creare solidità e a permettere a Gerwig di risolvere, nel contrasto prima-dopo, nodi difficili traducendoli nei momenti più intensi e indovinati: la malattia di Beth, raccontata con il posto a tavola prima occupato e poi vuoto, è semplicissima eppure di un pathos estremamente commovente senza essere lacrimevole.

Il tema femminile è forte, sottolineato nella visione autoriale di Gerwing in un discorso di realizzazione personale e talento artistico, in una società dove l’unico pensiero per una donna è quello di “maritarsi bene”, come non si stanca di ripetere zia March. Ma se non è una novità la rabbia furiosa della strepitosa Jo di Saoirse Ronan, spinta all’emancipazione e alla libertà, è certamente la prima volta che Amy viene spogliata di quella allure vezzosa cui siamo stati abituati: qui è infatti una giovane donna che rivendica il diritto di diventare un’artista pregevole, o altrimenti di abbandonare la pittura per sempre. Centrati gli altri personaggi – forse un po’ opaca Meg – mentre è soave la mamma Marmee di Laura Dern. Piacciono i caratteri maschili, e non solo l’asso pigliatutto Chalamet. L’elemento romantico affiora ben calibrato, ma anche al momento dei trionfi dell’amore resta un’impalpabile spleen malinconico ad aleggiare, che fa dire alle protagoniste «È terribile che l’infanzia sia finita». Non c’è che dire: con la sua impronta personale, forte e ironica, l’autrice di Sacramento ha fatto centro ancora una volta. –



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