Le mazzette dei gerarchi nella “Tangentopoli nera”

di PIETRO SPIRITO
Tra i più attivi c’erano, a Milano, Mario Giampaoli, segretario federale del Fascio, e il podestà Ernesto Belloni. In combutta tra loro si arricchirono con le mazzette degli industriali e i lavori pubblici per il restauro della Galleria, facendo sentire tutto i loro peso politico, forti dell’amicizia di Arnaldo Mussolini, il fratello del Duce. E poi c’era il ras di Cremona, Roberto Farinacci, che da un lato denunciava il malaffare e il marcio all’interno del partito, dall’altro conquistava posizioni sempre più importanti grazie a una rete occulta di banchieri, criminali e spie. E che dire dello squadrista fiorentino Amerigo Dumini, che tiene in scacco lo stesso governo fascista con le carte sottratte a Giacomo Matteotti dopo averlo assassinato, carte che provano le tangenti pagate alle camicie nere dall’impresa petrolifera Sinclair Oil. Del resto, in un colloquio personale poi riferito al Duce dalle spie, il grande filosofo liberale Benedetto Croce l’aveva detto già nel 1930: non c’è da credere «alla veridicità dei bilanci dello Stato», perché «il Fascismo è una grande organizzazione di affaristi. Tutti pensano a rimpinguare le tasche e, quando si farà la storia di questi tempi, quello che uscirà fuori farà rabbrividire».
E a fare la storia del malaffare al tempo del fascismo ci hanno pensato adesso . Mario José Cereghino e Giovanni Fasanella nel libro “Tangentopoli nera” (Sperling&Kupfer. pagg. 252, euro 15,30), da domani in tutte le librerie. Segugi d’archivio di lungo corso, investigatori del passato con uno sguardo sempre rivolto al presente, Cereghino e Fasanella sono una coppia rodata della storiografia investigativa e hanno come terreno d’azione i National Archives di Kew Gardens, a pochi chilometri da Londra, la memoria dello spionaggio britannico, uno dei più antichi e organizzati del mondo. Ed è qui, nei National Archives, che i due studiosi hanno scovato «migliaia di carte private di Mussolini». «Sono - spiegano gli autori - per lo più resoconti scritti da agenti segreti, lettere di camerati, soffiate anonime e precise denunce con tanto di firma». Materiali che Mussolini aveva conservato gelosamente fino al 25 luglio 1943 quando, sfiduciato dal Gran Consiglio, finì agli arresti. Solo una parte di quell’archivio seguì il Duce a Salò dopo la liberazione da parte dei parà tedeschi, mentre il resto «subì una vera e propria diaspora». Dopo la guerra in parte i documenti vennero copiati dagli alleati in un’impegnativa ricostruzione dell’archivio di Mussolini, e le copie inviate sia negli Stati Uniti che a Londra, mentre le carte originali, depositate all’Archivio Centrale dello Stato, subirono nel tempo non pochi «saccheggi»: «Molte scomparvero - scrivono Cereghino e Fasanella -, probabilmente quelle sui personaggi del vecchio regime riciclati nell’establishment (...) molte altre finirono invece sul mercato nero e, da qui, su rotocalchi e giornali scandalistici». Così, dopo il libro “Le carte segrete del Duce”, dove si parla dei rapporti tra il fascismo e la massoneria e degli scandali sessuali del regime, Cereghino e Fasanella mettono insieme i tasselli recuperati negli archivi londinesi per tracciare una mappa dettagliata dei livelli di corruzione e malaffare al tempo del fascismo.
Ne esce un quadro che se nelle sue grandi linee era noto, nella messa a fuoco dei dettagli fa emergere in modo netto quanto per il fascismo la politica fosse in buona misura «strumento di elevazione sociale e di arricchimento illecito attraverso tangenti, colossali ruberie pubbliche e traffici di ogni genere, anche con la malavita organizzata». Senza per altro «dimenticare l’uso spregiudicato del potere bancario per conquistare e mantenere il consenso, e di quello mediatico per regolare i conti fra cricche rivali». La “fabbrica del fango” non è certo un’invenzione dei nostri giorni. Nella loro inchiesta a ritroso Cereghino e Fasanella puntano l’obiettivo su alcuni episodi e personaggi chiave della diffusa tangentopoli, come i citati Giampaoli e Belloni, Farinacci, lo stesso Arnaldo Mussolini, e altri nomi che usciranno da archivi segreti privati. Come quello del massone Leandro Arpinati, un ricattatore (e non era l’unico) con il pallino di archiviare qualsiasi documento e prova sulle questioni interne del regime per trarne profitto. Da questo archivio saltano fuori i nomi per esempio di Marcello Diaz, figlio del “Duca della Vittoria” Armando Diaz, a capo di una vera e propria «cricca affaristica», o quello di Italo Balbo che, diventato potente al punto di insidiare la leadership del Duce, finirà come noto abbattuto con il suo aeroplano “per sbaglio” dal fuoco amico dalla contraerea italiana sui cieli di Tobruk, in Cirenaica. Non prima, però, che uno dei suoi più stretti collaboratori, il giornalista Gino D’Angelo, finisse travolto da uno scandalo con l’accusa di essersi «appropriato di gran parte del fondo istituito dal sindacato dei giornalisti, circa 60.000 lire, per i sussidi di disoccupazione». Altro che ordine e disciplina, il regime fascista era marcio alle radici, più di quelle decrepite istituzioni liberali che aveva combattuto.
Ma la domanda delle domande che punteggia le pagine della “Tangentopoli nera” è: Mussolini sapeva? Naturalmente sì, visto che la stragrande maggioranza delle fonti utilizzate dagli autori provengono dal suo archivio. Sapeva eccome, e utilizzava il suo sapere a seconda del bisogno: qua e là teste cadevano - come quelle di Giampaoli e Belloni -, polizia e magistratura facevano il loro dovere. Qualche volta con punizioni esemplari, altre volte con misure blande o di facciata. Altre volte ancora Mussolini lasciava correre, o indirizzava le reti occulte a suo vantaggio, per sciogliere questo o quel nodo politico, questa o quella faida intera al partito. Insomma il Duce sapeva e faceva con il malaffare quello che ha sempre fatto e sempre farà ogni dittatore e ogni detentore di un potere fuori controllo.
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