Le cavie di Magrelli quasi quarant’anni di versi sul confine dello sguardo

Esce con Einaudi un’antologia di oltre seicento pagine sulla produzione del poeta romano dal 1980 al 2018

Il percorso



Ha esordito nel 1980 con “Ora serrata retinae”, uno dei più bei titoli della poesia italiana. E d’altra parte è un’espressione che potrebbe far pensare a un verso dei grandi classici latini, magari estrapolato da Tibullo o Virgilio. Niente di tutto questo. L’ora serrata è solo la linea di confine che separa la parte ricettiva della retina da quella cieca. Un confine ibrido che, come dice il poeta, sta dentro il nostro sguardo. Da quel primo libro Valerio Magrelli ha continuato a pubblicare raccolte precise, quanto a sguardi sul mondo, ma anche su se stessi e che ora Einaudi raccoglie in “Le cavie” (euro 17,00), più di 600 pagine sulla produzione in versi dal 1980 al 2018.

Artefice di una lingua personalissima, Magrelli ha sempre alimentato di ricerca la sua poesia, evitando pedanterie concettuali, restituendoci invece una quotidianità collettiva e concreta. Sta anche qui l’originalità del poeta romano, se pensiamo al periodo in cui iniziò a scrivere, presumibilmente durante gli anni ’70. Un’epoca in cui il dettato era quello dell’impegno politico, civile. Ma appunto, non c’è nulla di più civile, in poesia, di non seguire i dettati.

Magrelli infatti fin dall’inizio ha un’idea chiara della scrittura e del silenzio che le è necessario, senza precipitare nel rumore dell’ideologia: “Preferisco venire dal silenzio / per parlare”. E le parole sono perfette, quasi geometriche, intente a un’analisi chimica di chi non possiede sentimenti, intente insomma a “recepire”, fino al limite dell’ora serrata, la materia: “Io non conosco/quello di cui scrivo,/ne scrivo anzi/proprio perché lo ignoro”.

Un verso frontale che illumina tante inutili diatribe rispetto a chi pensa che la poesia possa contenere qualche risposta. Una ricerca che continua con “Nature e venature” (1986), forse il libro più alto, teso a scalfire l’imperturbabilità dell’inorganico. Una composizione che si affida sempre agli oggetti, a una specie di psicologia degli oggetti che, azzardando, potrebbe assomigliare a un racconto di Richard Ford (“Infiniti peccati”), lì dove le cose parlano, comunicano una psicologia annoiata e perplessa. Certo non è il tema di Magrelli, ma è anche vero che in questi versi “gli oggetti nascondono il volto/coltivano curvi ciascuno la sua ombra”. Forme, perimetri, cose, capaci però di vita autonoma, come le terrazze condominiali, coi loro panni stesi al sole, in grado di evocare una precisa “infanzia aerea”.

Inizia qui anche un percorso metapoetico che indubbiamente raggiunge il culmine con “Il sangue amaro” (2014), con quel verso a cui si ispira questa antologia: “O forse sono cavie, queste poesie che scrivo,/per qualche esperimento concepite,/che tuttavia non so”. Ma già prima appunto, nella sua seconda raccolta, Magrelli fa i conti con i ferri del mestiere: “Qual è la sinistra della parola, /come si muove nello spazio /dove proietta la sua ombra/ (ma può una parola fare ombra?)”. Quesiti che si proiettano sulla scrittura, ma anche sulla vita e le sue contraddizioni, sul rumore della contemporaneità, la perdita di identità umana che corrisponde alla perdita di umane parole, surclassate da quelle mediatiche, tecnologiche, virtuali.

Si delinea insomma un concreto discorso civile, il cui abito non è ideologico, ma umano. Da “Esercizi di tiptologia” (1994) fino a “Il sangue amaro” (2014), passando attraverso “Disturbi del sistema binario” (2006), Magrelli esamina i fenomeni del contemporaneo con una lucidità resa ancora più evidente dalla misurata ironia e, soprattutto, senza rinunciare a quell’esistenzialismo che non indietreggia di fronte al nulla. Al nulla che è la morte, altro grande tema magrelliano. E sulla scia di quel “sangue amaro” – che si guasta con l’inizio della vita (che è già morte) e con il veleno della contemporaneità – si inserisce anche l’ultimo “Il commissario Magrelli” (Einaudi, pag. 76, euro 15,00), un contro canto in versi del genere più di moda, il giallo. Dove però l’attenzione del commissario poeta non è per il serial killer – come per noi morbosi voyeur – ma per i serial killed, le vittime. Per tentare di “Entrare nell’Umano”. —



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