Lawrence Osborne nell’estate dei fantasmi l’altruismo radical chic dell’Occidente vacuo

È nato in Inghilterra nel 1958, Lawrence Osborne, ma vive e lavora a Bangkok, a cui ha pure dedicato un titolo. Ai più è conosciuto per il suoi reportage per il New York Times e l’Independent, non è in fondo uno scrittore così popolare, o lo è da pochi anni, nonostante le sue opere in Italia siano tradotte da Adelphi e il suo primo romanzo risalga agli anni ‘80. Si è molto dato alla saggistica, al reportage e alla letteratura di viaggio, con buone dosi di memoir. D’altra parte Osborne ha attraversato esperienze che non hanno nulla da invidiare agli scrittori più anticonformisti dell’800, alla Jack London. Ha vissuto un po’ ovunque, dalla Polonia, al Messico, dalla Grecia a Beirut fino a stabilizzarsi in Thailandia. E ha fatto parecchi mestieri, prima di diventare giornalista ha lavorato pure in Italia, negli uliveti toscani. Insomma non è mai stato il classico autore dalla vita intellettualmente lineare e confortevole. Il suo esordio, nel 1986, aveva a che fare con la fiction, un libro che non esiste in Italia, “Ania Malina”. Torna alla fiction nel 2012 con “The forgiven”, un thriller psicologico che ha ottenuto larghi consensi e di cui ora è previsto pure un film. Ma appunto nel frattempo Osborne ha scritto libri stilisticamente più ibridi, come “Bangkok”, e saggi su temi diversi, ma tutti i suoi testi hanno un codice comune, la caduta dell’Occidente.
Lo conferma anche il romanzo “L’estate dei fantasmi” (Adelphi, pag. 285, euro 19), da poco in libreria per la traduzione di Mariagrazia Gini. Siamo nell’isola greca di Idra, resa famosa da molti vip negli anni ’60. Protagoniste Naomi e Sam, due rampolle di ricche famiglie, una inglese e l’altra americana. Naomi pare più anticonformista, tanto da decidere di aiutare un fuggiasco siriano a scappare dall’isola, ma nel farlo si innescano una serie di eventi che porteranno alla tragedia. Sia chiaro, Osborne non ci dà un focus specifico sulla situazione dei rifugiati nel Mediterraneo, non è questo il centro del romanzo. Piuttosto quello che si evidenzia sono le vite parallele di chi viaggia per piacere, «Distesi nel fasto avvolgente dei pigiami, fra icone bizantine e quadri di capitani idrioti», e chi lo fa per disperata necessità. L’anticonformismo o il presunto coraggio di Naomi, è solo una flebile apparenza, una specie di gioco all’altruismo per attenuare i sensi di colpa o giustificarli. Ed è qui che l’Occidente appare in tutta la sua decadente vacuità, descritta in modo perfetto, con atmosfere e ambientazioni che senza barocchismi ci riportano al Gatsby di Fitzgerald. O per certi aspetti alla tensione psicologica di Maugham.
Ma appunto, non diversamente da “Bangkok” o da “Cacciatori nel buio”, protagonista è una gioventù impoverita, annoiata, in crisi esistenziale e fuggiasca, una società depressa, privilegiata ed esausta, in cerca di non si sa più che cosa e ormai superata: «Gli inglesi dell’isola erano amanti dei libri, socialmente privilegiati, fortemente interessati alla cultura che li circondava. Ma negli ultimi tempi russi ed emiratini sembravano averli soppiantati». La tensione cresce, di pagina in pagina ci si chiede come le due ragazze la faranno franca, ma il caso si mette in mezzo in modo perfetto, e perfetti sono i profili psicologici tanto da riportarci infine a un’unica maliziosa realtà: quella appunto di un Occidente sbiadito, sull’orlo della rovina, sia che si accetti il destino previsto da una ricca famiglia – per lo più sposarsi con un altro benestante e dare seguito alla stirpe – sia che si decida di ritirarsi in un’isola, dopo aver tentato in buona fede di soccorrere i più sfortunati, senza rinunciare ai propri privilegi, continuando a credere in molteplici ideali, l’arte, la democrazia, la prodigalità, con buona pace dei radical chic. —
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