Laura Pugno: «Da poeta sulle tracce perdute della ragazza selvaggia»
La scrittrice che dirige l’Istituto di cultura a Madrid in finale al Campiello con il libro edito da Marsilio

La scrittura, per Laura Pugno, apre grandi orizzonti di libertà. Perché le permette di inventare storie, di sperimentare parole, di provare emozioni. Nel corso degli anni, le poesie, i romanzi sono diventati per l’autrice romana una sorta di vita parallela. Una seconda esistenza da affiancare alla carriera da funzionario della Farnesina prima, e di direttore dell’Istituto italiano di cultura a Madrid da un paio d’anni.
Con il suo quinto romanzo, “La ragazza selvaggia” (Marsilio), Laura Pugno è arrivata in finale al Campiello. Sabato 9 settembre, al Teatro La Fenice di Venezia, in una serata presentata da Natasha Stefanenko e Enrico Bertolino, proverà a vincere il Premio sfidando Stefano Massini con “Qualcosa sui Lehman” (Mondadori), Mauro Covacich con “La città interiore” (La nave di Teseo), Alessandra Sarchi con “La notte ha la mia voce” (Einaudi) e Antonella Di Pietrantonio con “L’Arminuta” (Einaudi). Questa sera, alle 20.35 su Rai5, andrà in onda “Aspettando il Campiello”.
Riprendendo temi del suo primo romanzo “Sirene”, ma anche dei successivi “La caccia” e “Antartide”, Laura Pugno racconta la storia di Dasha, che sparisce nel bosco della riserva sperimentale di Stellaria, e riappare molti anni dopo. Ma esplora anche la penombra che si insinua dentro la sua famiglia e nella vita di Tessa, la biologa che proverà a riportare la ragazza nel mondo degli uomini.
«Storie di ragazzi selvaggi compaiono da sempre nei libri, sui giornali - spiega Laura Pugno -. Il mio romanzo nasce dall’immaginazione con molte radici nel mito, nella leggenda. Non posso certo dimenticare “Il ragazzo selvaggio” di François Truffaut. Il film che il regista trasse nel 1970 dal racconto di Jean Itard, dove si documentava il ritrovamento nell’800 di un bambino vissuto nella foresta del dipartimento francese dell’Aveyron. E potrei citare anche il mistero di Kaspar Hauser, l’orfano d’Europa che diceva di essere cresciuto in una buia cella. Sono uscite decine di romanzi, articoli, film, ma la verità non la sappiamo ancora».
Si è ispirata a un episodio in particolare?
«No, anche di recente ci sono stati episodi molti simili. Ma a me non ha colpito nessuno di questi in particolare. Devo dire che le mie suggestioni hanno radici più profonde».
In che senso?
«Le figure dei ragazzi selvaggi finiscono per essere un simbolo. Su cui ognuno di noi proietta sogni, emozioni, paure, rimpianti, di un rapporto ormai in parte perduto, compromesso, con la Natura. Il progresso, la spinta civilizzatrice hanno scavato un solco profondo tra noi e il nostro essere primordiale. In questo romanzo volevo che si riflettessero i cambiamenti che hanno portato l’umanità a dominare il pianeta Terra. Con tutte le conseguenze, non sempre positive, che si sono trascinati dietro».
L’idea della scomparsa era presente in altri suoi romanzi...
«Ho lavorato molto su questo tema nei miei ultimi romanzi. Per esempio ne “La caccia” e in “Antartide”, pur senza progettare di fare una trilogia che ruoti attorno a questo tema. In uno, la scomparsa era voluta, cercata, nell’altro era causata dalla morte. E innescava, comunque, un meccanismo di ricerca per provare a capire di più».
Nella “Ragazza selvaggia”, Dasha ritorna. Per non restare?
«La scomparsa di Dasha, nel mio nuovo romanzo, consente un ritorno. Anche se la ragazza riappare, ma resterà irraggiungibile. Perché sono convinta che ogni esperienza presuppone un’evoluzione. Nessuno può ritornare allo stato precedente».
Difficile scrivere una storia così?
«Più che altro, ha richiesto un lungo periodo di riflessione. Quasi due anni. Perché non riuscivo a mettere a fuoco come trasformare l’idea in una storia. In un romanzo. Dovevo trovare i personaggi giusti, stare attenta che le loro vite si incastrassero alla perfezione nel divenire della trama. Dopo questa lunga attesa, improvvisamente il romanzo ha trovato la propria forma».
Ha visto la serie tv spagnola “Il sospetto” su Canale 5?
«Ecco, questo è buffo. Due anni fa c’era questa serie su una bambina scomparsa. Io l’ho scoperto da un blog in internet quando il libro era ormai uscito».
Per prima è venuta la poesia?
«Scrivo versi da sempre. E per anni sono stata convinta che mi sarei occupata sempre e solo di poesia. Alla narrativa ci sono arrivata per gradi, anche grazie alla mia passione per il cinema che mi spingeva a inventare delle sceneggiature. Dalla poesia mi sono portata appresso una grande attenzione per la ricerca linguistica».
Ma in Italia è ancora possibile?
«La scrittura in prosa concede molte strade. Anche se oggi mi sembra che stiamo un po’ perdendo questa ampiezza di orizzonti. Soprattutto, credo che in Italia non sia facile per un autore essere poeta e romanziere insieme. Forse perché la poesia è vista come una scommessa spesso rischiosa».
Amava scrivere già da bambina?
«Scrivo da sempre. Ma, soprattutto, ho imparato a leggere quando avevo tre anni, grazie al fatto che mio fratello, che iniziava ad andare a scuola, doveva farlo per forza. Mi piaceva scrivere diari, a sette anni ho inventato la prima poesia. Un testo ingenuo».
E poi?
«Da più grande ho cominciato a frequentare un laboratorio di poesia a Roma, da cui sono usciti anche i fondatori della casa editrice minum fax. Per me un’esperienza molto importante. Adesso c’è internet, che permette ai giovani autori di avere molti più contatti con il mondo della letteratura, con gli editori. Però la situazione è, al tempo stesso, più complicata di un tempo».
Ha debuttato con dei racconti?
«Ho scritto solo versi fino al 2002, quando Sironi ha pubblicato i miei primi racconti “Sleepwalking”. Avevo 32 anni. Però ho sempre pensato che non si vive di sola letteratura, che è giusto avere un lavoro alle spalle. Perché così la scrittura può godere di una maggiore libertà. Non diventa mestiere necessario per sopravvivere».
Ha iniziato a fare concorsi?
«Ho vinto due concorsi. Il primo per funzionario che si occupa della promozione culturale, nel 2003. Poi, cinque anni fa un altro per dirigente dell’area della promozione culturale. E questo percorso mi ha portata a Madrid, prima come addetto dell’Istituto italiano di cultura dal 2008 al 2012. Poi sono rientrata per un periodo a Roma, e nel 2015 mi hanno nominata direttore dell’Istituto stesso».
Un’anima divisa in due?
«Faccio due vite in una. Da sempre, ho desiderato occuparmi di cultura, per questo mi dedico al mio lavoro con grande passione e impegno. E lo considero anche una scuola per comprendere l’animo umano, visto che sono a contatto con tante, diversissime persone».
Quando trova il tempo per scrivere?
«Non sono abitudinaria. Non devo scrivere per forza sempre al mattino o al pomeriggio. Possono trascorrere anche cinque anni senza che prenda forma un libro nuovo. Importante è che ci sia l’idea giusta».
La emoziona essere in finale al Campiello?
«Provo una grande emozione. E non nascondo di avere anche qualche aspettativa dalla serata finale. Passare sotto il giudizio di 300 lettori anonimi, che decideranno la nostra sorte, ti fa aspettare il verdetto con una sorta di felice fatalismo. E poi l’aspetto più bello dell’avventura del Campiello è che abbiamo incontrato, dialogato con molti nostri lettori in giro per l’Italia nel corso dell’estate. Un’esperienza importantissima. Anche perché abbiamo visto finalmente in faccia chi, poi, leggerà i nostri romanzi».
alemezlo. ©RIPRODUZIONE RISERVATA
Riproduzione riservata © Il Piccolo
Leggi anche
Video