L’armi e i cavalieri del Medioevo quando i ricchi facevano la guerra
Un Afghanistan, una Libia dei giorni nostri. Così era l’Europa alle soglie dell’anno Mille: uno stato fallito per la dissoluzione del potere centrale a causa di una grave instabilità istituzionale. Violenze e saccheggi all’ordine del giorno, una situazione di guerra di tutti contro tutti incombente ed endemica. Per fortuna oggi, scrive Nicola Labanca nell’introduzione a “Guerre ed eserciti nel Medioevo” (pagg.372, euro 25,00), il nuovo volume della collana che il Mulino dedica a guerre ed eserciti nella storia, a distanza di oltre settant’anni dall’ultimo conflitto in cui siamo stati direttamente coinvolti, è difficile ‘pensare la guerra’.
Il libro collettaneo curato da Paolo Grillo e Aldo Settia, portandoci tra soldati mercenari, fortezze e castelli, costi e cultura della guerra, serve a mantenere alta la guardia, a ricordarci cosa sono stati quei lunghi secoli in cui gli Europei erano sempre in guerra fra loro. Quando, non sentendosi più tutelati dallo stato carolingio, i grandi proprietari decidono di fare da sé e di armarsi. Una lancia, una spada lunga e una spada corta, uno scudo e un elmo, questa era l’attrezzatura di base, molto costosa, tanto che il mestiere delle armi era appannaggio dei soli ricchi. Ma di tutto l’armamentario il bene più prezioso era il cavallo, tanto che durante l’età comunale era l’erario che rimborsava il danno subito per gli animali morti in servizio.
E non poteva mancare chi gonfiava le fatture, come si direbbe oggi, o inventava incidenti poco cavallereschi per maggiorare i rimborsi. Era l’età d’oro della cavalleria cortese, che da un complesso sistema di valori costruito attorno all’individuo diventa, tramite la letteratura, vero e proprio mito. I cavalieri non si uccidono tra loro, fare la guerra è un passatempo che comporta rischi ridotti. Ma già qualche secolo dopo al condottiero tocca un lavoraccio sempre più rischioso. Tra una campagna e l’altra bisogna anche tenersi aggiornati. Leggere i manuali, come quello di Pier Paolo Vergerio. Ecco il vescovo capodistriano, all’interno di un programma completo per l’educazione dei principi, insegnare dove collocare gli accampamenti, conoscere con quali artifizi condurre un esercito, come ordinare le schiere, come prevenire i movimenti del nemico, come tendergli insidie. Le campagne brulicavano di armati. Ai cavalieri si erano aggiunti fanti, ingegneri esperti di macchine infernali, artigiani, fabbri e carpentieri. E se Dante, nella Vita Nova si vantava che nessun italiano aveva poetato d’armi, i suoi concittadini sapevano come menare le mani. Bastava anche una festa, come il calcio fiorentino, e si finiva in rissa. —
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