L’amore per la squadra del cuore è una cosa meravigliosa

Falcoa, Barabba e “noantri” popolano il bizzarro microcosmo costruito da Sandro Bonvissuto nel delizioso romanzo “La gioia fa parecchio rumore” (Einaudi, pagg. 200, 18,50 euro). Pochi autori sono riusciti a trovare la poesia dentro a un pallone. Osvaldo Soriano, Eduardo Galeano, a volte Gianni Brera e Gianni Mura, tutti giornalisti e grandi narratori. Umberto Saba, invece («la vostra gloria undici ragazzi, come un fiume d’amore orna Trieste») va citato a parte, era di un’altra categoria. Anche Bonvissuto adesso può rivendicare un posto in prima fila tra quelli che sono riusciti a ricavare nobili parole da uno sport ruvido.
“La gioia fa parecchio rumore“ provoca buone vibrazioni fin dalle prime pagine. Inizialmente sembra un trattato filosofico sull’amore e forse lo è spesso però camuffato dalle divagazioni, coloriture e racconti strampalati dall’autore. Un libro che dipinge un amore puro. Assoluto. Sofferto. Faticoso. Così estremo da avviluppare tutta la vita di un ragazzo cresciuto in una borgata della capitale. Non c’è spazio per altro. Il protagonista vive per la sua squadra, la Roma con una devozione totale. Neanche nei momenti più cupi riesce a perdersi una goccia di quell’amore. Il sentimento che prorompe da queste pagine è autentico, genuino, è un sentimento che effettivamente fa parecchio rumore. Talvolta è assordante. «Forse il calcio è l’unica cosa al mondo che è più bella quando la fanno gli altri. Quelli con quella maglia però. Che comunque ce l’hanno solo in prestito perché la maglia della Roma è mia».
Ma un personaggio estremo è anche lo scrittore. Bonvissuto è un cinquantenne laureato in filosofia che di giorno fa il cameriere in una tipica osteria romana e di notte scrive per sfamare questa sua passione per la letteratura e per la Roma. Prima ancora della storia, colpisce il registro narrativo scelto da Bonvissuto, il quale riesce sapientemente a scorrazzare sulle montagne russe della scrittura senza mai cadere, alternando passaggi sentimentali a discese in picchiata con aneddoti esilaranti sottolineati da un dialetto romanesco che ha sempre la sua efficacia.
Il protagonista è cresciuto in una famiglia sopra le righe. Divertente e rumorosa che lo inizia alla vita. «Gente che non si tiene niente nel cuore». Gente che guarda la radio e ascolta la televisione quando ci sono le partite della Roma su un divano nuovo dove c’è già però l’impronta del sedere di tutti. Una comunità fatta di mamma, papà, zio (un amico di famiglia), nonno. Nessuno mai citato per nome. Neanche Paulo Roberto Falcao, l’icona del libro è il numero 5 e basta. Ma un’eccezione c’è, per Barabba, una sorta di maestro di vita per il ragazzo. Un uomo schivo che vive in un roulette ai margini della ferrovia. Commercia in cose che non compra ma che si procura come la sabbia del greto del fiume. Sarà Barabba a spiegare al giovane innamorato la magia di quel numero primo, il 5. La passione del giovane tifoso va anche oltre alle pur alte aspettative di papà e zio, tanto da renderlo un bambino diverso, pieno di stranezze. Non completa mai tutto l’album delle figurine ma solo le pagine riservate ai giocatori della Roma.
Il segmento temporale è quello tra gli anni Settanta e Ottanta, pieni di amarezze, culminati in una retrocessione che non scalfisce l’amore del nostro piccolo eroe. La svolta calcistica è segnata dall’arrivo di un giocatore brasiliano dall’Internacional di Porto Alegre grazie a una dritta del giornalista Ezio De Cesari del Corriere dello Sport. Pochi conoscono Falcao, a Roma tutti si aspettavano Zico. È il 1980. Le prime uscite del numero 5 non sono convincenti. Ma con il passare del tempo il brasiliano dalla chioma fluida conquista la platea caricandosi sulle spalle la squadra. Ne diventerà il suo faro. Per il popolo giallorosso sarà per sempre il divino o l’ottavo re di Roma. Piedi sapienti e cervello fino, il brasiliano a volte fa il regista, a volte il mediano, a volte il rifinitore. Lo vedi in ogni zona del campo. Secondo “Er Mister”, in Sudamerica a centrocampisti con queste caratteristiche viene attribuito il ruolo di “volante”, in omaggio a Carlos Volante eccelso giocatore italo-argentino degli anni Quaranta. Falcao ha tutta Roma ai suoi piedi (anche le donne) e nella stagione 82-83 trascina i giallorossi alla conquista dello scudetto, parola che papà e zio per scaramanzia non volevano mai sentire pronunciare. Memorabili le trasferte della sgangherata famiglia su un pullmino Fiat 900 “come quello delle suore” fino a Milano a Pisa con il motore che profuma di mandarini. Un incantesimo che rischia di rompersi il 30 maggio del 1984, serata in cui la Roma perse la Coppa dei Campioni ai rigori contro il Liverpool (in campo ai supplementari c’era anche il triestino Mark Strukelj). Il divino non se la sentì di calciare dal dischetto. Una macchia nella sua luminosa carriera. Ma niente può spegnere un amore così forte, neppure un simile disastro. —
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