La vulcanica Hekla è Miss Islanda la donna che amava scrivere

Duecentottanta pecore e diciassette mucche, quattordici rosse e tre pezzate. Dalir, nord ovest dell’Islanda. Qui nasce nel 1942 Hekla, la protagonista di “Miss Islanda” di Audur Olafsdottir (Einaudi, 196 pagine, 18,50 euro, traduzione di Stefano Rosatti). Il padre la chiama come uno dei vulcani più impetuosi del paese, perché lui li ama i vulcani, non per la loro distruttività, ma per la loro potenza creativa. Nel 1947 Hekla il vulcano erutta spettacolarmente, e lui carica la bambina in macchina, la porta a vedere. La madre racconta che al ritorno la piccola è cambiata: “Avevi scoperto l’alto e ti volgevi verso il cielo”. Quando, a diciannove anni, Hekla parte per la capitale, in grembo lungo il viaggio l’Ulisse, è già tempo che scrive ogni giorno: “Impugno la bacchetta del direttore d’orchestra. Posso accendere una stella nel firmamento nero. Posso anche spegnerla. Il mondo è una mia invenzione”. A Rejkiavik la ospita Jon John, un amico omosessuale che dice di sé: “Non rientro in nessuna categoria. Sono un imprevisto, il bambino che non doveva nascere” e che le chiederà di fingere con i colleghi marinai di essere la sua fidanzata. Hekla trova lavoro nel ristorante di un albergo e siccome è bella i clienti la molestano e uno di loro le propone insistentemente di prendere parte al concorso di Miss Islanda. Ma lei ha dentro “la gioia di essere viva e di sapere che sto andando a casa a scrivere”. A Rejkiavik vive anche Isey, la sua amica d’infanzia che è già sposata e ha una bimba: ”Avevo talmente poco spazio per me, a casa, la montagna della fattoria incombeva sul recinto del prato, volevo andarmene via”. Anche Isey, per certi versi il contraltare della protagonista, la donna che ha fatto la scelta più tradizionale e sente il bisogno di mettere radici, si lascerà andare per un poco alla scrittura (Mi è sembrato di poter toccare il cielo con la penna) prima di “Impacchettare le sue ali” e dichiarare che la macchina da cucire è la sua macchina da scrivere. Hekla frequenta naturalmente le librerie e la biblioteca della città, è una che da piccola ha letto tutti i libri che c’erano in casa, Kierkegard e il Vocabolario islandese-danese compresi, e proprio in biblioteca incontra il poeta con cui andrà a vivere. Non gli dice che scrive, non sono tempi per donne, e lo fa di nascosto a casa di Jon John. Quando lui lo scopre e scopre che pur sotto pseudonimo lei ha già pubblicato, vacilla e si smarrisce: “Mi hai superato. Tu sei un ghiacciaio che scintilla, io una collinetta di campagna. Tu sei pericolosa, io innocuo”. Ma lei dice a Isey. “Non posso mollare. Scrivere. È questo che mi tiene ancorata alla vita. Non ho nient’altro. Tutto quello che ho è l’immaginazione”. Perché questo libro è anche un omaggio alla scrittura e ai tanti poeti e scrittori dell’Islanda, terra in cui, si sa, quasi tutti praticano una forma d’arte. Anche per questo il testo è ritmato da citazioni che vanno da Lorca al Cantico dei Canti a Shakespeare. E se nel bel “The Passenger” che Iperborea ha dedicato all’Islanda lo scrittore Stefansson parla della “memorabile irresolutezza” e dell’indipendenza del popolo islandese è anche certamente vero che proprio queste qualità fanno di Hekla quello che è. Come dice di lei la madre morta da tanto in una seduta spiritica: “Bisogna avere il caos nell’anima per far nascere una stella che danza”. —
Riproduzione riservata © Il Piccolo