La tragedia di Sarajevo? Un racconto in versi

Per ricordare il centenario dell’attentato che cambiò il corso della storia mondiale del ’900, fino a sabato si tiene a Sarajevo il convegno "The long shots of Sarajevo: Events - Narratives - Memories of 1914” (programma disponibile in http://eumem.ba/program/), a cui parteciperanno 45 studiosi provenienti da Europa e Stati Uniti. Anticipiamo qui una parte rielaborata in italiano dell’intervento che il nostro collaboratore Luigi Reitani (Università di Udine) terrà domani.
di LUIGI REITANI
L’attentato di Sarajevo non sembra aver trovato nella letteratura italiana lo stesso spazio che ha avuto in altre letterature, in cui questo evento viene subito percepito e rappresentato in tutte le sue implicazioni. Saranno invece la logorante guerra di trincea sul Carso, le battaglie sull’Isonzo o sull’altopiano di Asiago a offrire a poeti e narratori abbondante materiale per le loro opere. Ciò si deve, naturalmente, alla più tarda partecipazione italiana al conflitto. Solo nel maggio del 1915 la guerra diviene effettivamente il tema del momento, scatenando l’euforia (o il legittimo scetticismo) per la mobilitazione generale.
L’eclatante assassinio dell’erede al trono Francesco Ferdinando, sia pure registrato con adeguato spazio nelle cronache giornalistiche, non aveva invece dato adito un anno prima a eccessive preoccupazioni, essendo convinzione diffusa che l’Austria non avrebbe messo a repentaglio la pace europea. Soltanto negli ambienti più oltranzisti dell’irredentismo nazionalista Gavrilo Princip era stato salutato come un eroe tirannicida. Il veneziano Giovanni Giurati, ad esempio, presidente della “Trento e Trieste” e futuro segretario del Partito Nazionale Fascista, aveva dichiarato: “Il nome dell’attentatore di Sarajevo è forse un augurio: Princip”. Molto diverse, impostate a condanna, equidistanza e prudenza, erano state le reazioni delle forze di governo e dei socialisti. Lo stesso Gabriele d’Annunzio, del resto, si guarderà bene dall’alludere agli attentatori nella sua roboante Ode alla nazione serba, pubblicata nel novembre del ‘15.
Chissà, forse Princip e gli altri attentatori si sarebbero aspettati una solidarietà maggiore da parte italiana, imbevuti com’erano di mazzinianesimo (non a caso la loro organizzazione si chiamava La giovane Serbia). Ma il 28 giugno del 1914 l’evento su cu cui discutevano i commentatori italiani erano piuttosto le elezioni comunali, che avevano consegnato alla sinistra città come Milano e Bologna.
Per trovare un’opera letteraria italiana dedicata all’evento che più di ogni altro è diventato il simbolo della Storia del Novecento bisognerà aspettare settant’anni, quando le edizioni Adelphi daranno alle stampe un volumetto singolare da ogni punto di vista: “A Sarajevo il 28 giugno” di Gilberto Forti. Insieme al “Piccolo almanacco di Radetzky” (sempre uscito da Adelphi) si tratta dell’unico libro pubblicato come autore di una figura defilata, eppure di grande spessore, della cultura italiana. A lungo direttore di settimanali come Gente e Gioia, collaboratore di importanti quotidiani, redattore editoriale, Forti (1922-1999) sapeva coniugare divulgazione e giornalismo di qualità, amore del particolare e senso critico. Aveva tradotto molti romanzi di consumo dall’inglese, ma anche Auden ed era divenuto la voce ufficiale di Brodskij in Italia; dal tedesco, invece, una scelta delle poesie di Goethe, il suo Tasso, l’Ifigenia e poi Canetti e Gregor von Rezzori. Postume sono uscite da Zandonai alcune sue prose autobiografiche, raccolte con il titolo I latitanti, incentrate in particolare sulla propria esperienza di partigiano nella resistenza, a cui aveva aderito a Milano, dopo essere stato costretto nel ‘38 a lasciare gli studi per le leggi razziali.
La singolarità di “A Sarajevo il 28 giugno” sta in primo luogo nel suo essere un racconto in versi, articolato in undici capitoli, ognuno dei quali è narrato da una diversa figura d’invenzione. Questa scelta mette in evidenza il carattere prettamente letterario del testo. Forti non mira infatti all’autenticità storica e non intende offrire una sua versione dei fatti. Piuttosto l’attentato è l’occasione di una narrazione polifonica, il cui valore sta nella testimonianza e nel ricordo. Il verso (spesso endecasillabi sciolti, disposti in una sintassi piana e godibile) sottrae al passato la sua fattualità e lo trasforma in un atto della memoria. Non a caso nell’epigrafe posta all’inizio del volume si legge “Venne dopo molti anni un testimone e poi un altro... Furono ascoltati, e ciascuno offrì la sua versione, con circostanze, nomi, altri dati. Sì, tutti erano testi volontari, giunti da varie parti dell’impero. Benché fossero testi immaginari, pure ognuno di essi era nel vero.”
Ecco dunque sfilare, davanti a un immaginario tribunale della storia, un consigliere aulico, una contessa un tempo residente a Breslavia, un caporale attendente di Francesco Ferdinando, un religioso della comunità cattolica di Sarajevo, un professore universitario di Praga, un guardiacaccia del castello di Konopischt (residenza dell’erede al trono), un archivista viennese: tutti con nomi che rimandano, non senza ironia, alla varietà etnica e linguistica della monarchia absburgica e che sembrano usciti dalla penna di Joseph Roth o di Stefan Zweig. Insieme formano una sorta di piccola collezione museale, che riproduce in miniatura il mosaico della perduta Cacania (per usare la celebre definizione che Musil diede dell’Austria-Ungheria). Ognuno di questi immaginari testimoni ha una prospettiva diversa e le proprie convinzioni. Al centro dei loro racconti c’è la figura dell’erede al trono Francesco Ferdinando e la sua tragica morte. L’interesse non è tanto orientato sui retroscena politici dell’attentato, ma sulla psicologia della vittima e del suo assassino. Ad esempio si sottolinea la passione quasi patologica che il principe ereditario ebbe per la caccia, e si mettono in luce le sue competenze di botanica. Una spiccata attenzione è dedicata al matrimonio morganatico con Sofia Chotek, che costò al principe l’aperta avversione della corte. Il ritratto che ne scaturisce è quello di un uomo ostinato, la cui volontà di azione è frustrata dalla lunga attesa della successione e dal rigido cerimoniale absburgico, che trova dunque in altri campi (come appunto la caccia) una compensazione alle sue ambizioni. E c’è chi sostiene che il suo imprudente comportamento a Sarajevo fu dettato da una sorta di impulso di morte. Mentre il vecchio caporale un tempo suo attendente spiega che la “vera causa della prima guerra mondiale” fu che la giubba di Francesco Ferdinando era stata cucita, in modo da mascherare la pinguedine del corpo. Mentre si tentata invano di slacciarne i bottoni, l’erede al trono moriva dissanguato: “Francesco Ferdinando se ne va, / e con lui se ne va la disciplina, / la stessa disciplina che l’ha ucciso / la disciplina delle cuciture / che tenevano insieme il vecchio impero.”
Ecco che il destino dell’erede al trono diviene il destino dell’intera Austria absburgica, e forse della vecchia Europa, uccisa (un suicidio?) per la sua incapacità di liberarsi di un sistema che la asfissiava.
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