Là sulle Rive non serve la carta nautica basta seguire le coordinate del cuore

TRIESTE Se è vero che a Trieste anche i gabbiani non ne possono più di Svevo e di Joyce figuriamoci se mi metto anch’io a scrivere di questa città, ho pensato con un po’ di soggezione nei loro confronti, dei gabbiani s’intende. È da qualche anno che a periodi vivo qui, ma provo a cavarmi d’impaccio con un espediente: mi dichiaro forestiero fuori competizione, uno che da Trieste è fatalmente attratto e sta imparando a conoscerla. Da Milano ci arrivo di solito in treno. Quattro ore e rotti. Con l’aiuto di vari Santi, San Donà di Piave, San Stino di Livenza, San Giorgio di Nogaro - finalmente!- tra le piante fitte che sfrecciano nell’inquadratura del finestrino, un alfabeto morse di lampi azzurri mi sveglia dal torpore. È il golfo che si annuncia urgente –Son-Qua-Son-Qua-Te-son-riva’!- sembra fare eco alle voci delle due signore che da Caorle ciacolano fitto alle mie spalle – ‘te go dito - te ga ciolto’- Senza scomodare Proust e le sue intermittenze del cuore, un cortocircuito geografico mi rimbalza in Liguria dove ho vissuto i miei primi tredici anni.
Quando ci torno, dopo curve e gallerie infinite, l’emozione della striscia azzurra che si accende all’improvviso oltre l’Appennino è la stessa. Trieste gioca a riconnettermi con il paradiso marino della mia infanzia. Affinità orografiche? Corrispondenze magnetiche tra mari opposti? No dir monade direbbero qui, son belinate direbbero là, ma almeno in fatto di genitali c’è una complementarietà evidente. Comunque sia, a Trieste respiro una strana aria di casa. La gente non ha fretta di fuggire dai binari. A Milano tutti ci facciamo prendere da quel gu da andà, anche se non sappiamo dove né perché. Rallento anch’io, e mi sembra logico e piacevole, qui con i binari anche l’Italia finisce sull’avamposto dell’Oriente. Mi lascio dietro la stazione, e sulla destra la Sala Tripcovich. Il sipario dipinto sulla facciata è per metà scrostato.
Torna a galla la memoria di un mio spettacolo bizzarro portato qua da Mittelfest anni fa e una strettina al cuore per questo teatro dismesso. Isso la randa e mi metto in rotta, cioè allungo il passo verso le rive, dico così perché mi sento già in barca. La città e il suo mare scivolano l’una dentro l’altro. La superficie increspata delle pietre prosegue e diventa blu senza che tu te ne accorga e anche camminare per strada sembra un tirare bordi con andature diverse, contro o a favore di vento. Vedo sbucare al traverso l’artiglio di Ursus, il Colosso di ferro. Passo al largo di Mirella, spaccio d’abiti che dai racconti immagino come un pericoloso scoglio di Sirene dove i maschi vengono divorati, e riaccosto accanto al Miela. Per me questo non è un teatro come tanti dove mi capita di lavorare, è un luogo speciale. Ritrovarsi con Mizzi, Donge, Laura e il resto della ciurma mi fa stare bene come tra vecchi pirati in taverna.
Qui ritrovo un sapore del far teatro che avevo dimenticato. Sandro un giorno, a bruciapelo come fa lui, mi dice: «Ma com’è che noi due lavoriamo insieme da un anno e sembra che ci conosciamo da sempre?». Mentre ci ragioniamo su, mi ritrovo a Milano, fine anni di piombo al liceo Berchet. Letture, occupazioni, discussioni furibonde, la Palazzina Liberty e Dario Fo, il Teatro Quartiere e la Scuola del Piccolo, quella di Strehler, il Maestro! Raggomitolato nella platea buia lo guardo provare Re Lear: le stesse tre battute ripetute all’ossessione. Ogni due secondi grida ‘No!’ e si ricomincia, ma sulla scena niente sembra funzionare.
Ho un sobbalzo quando a due passi da me il Maestro ruggisce:«Tino! Va in mona! Cussì no se pol!» e Carraro dal palco:«Ma vadarvialcù ti e ‘l to teater! Triestin barlafùs!». Ebbi così un primo indizio della connessione tra le due città. Ma se oggi mi ritrovo al Miela con Paolo Rossi, e se ripenso al Milan di Nereo Rocco, è chiaro che si tratta di una rotta sicura, percorsa in un senso o nell’altro in tempi e modi diversi, e che altri ancora un domani seguiranno. Proseguo lungo le rive. A sinistra il fiordo di Ponterosso s’infila in città, lambisce il promontorio della Serbia-Ortodossa e s’infrange sullo scoglio di Sant’Antonio. Sul Molo Audace c’è già pubblico per applaudire l’ultimo atto del Sole. Lo passo al lasco e la baia dell’Unità si svela a sinistra, regale nella luce dorata. Ultimo bordo, ed ecco a dritta Marina San Giusto. Al pontile mi aspetta Morgan, la mia gloriosa ‘bagnarola’. Da sottocoperta sbucano due begli occhi e un sorriso. Fare il punto sulla carta non serve. Le coordinate sono quelle del cuore. Brindiamo in pozzetto con effetto speciale: riflessi infuocati sulle vetrate del Salone degli Incanti. Con lo sguardo faccio una panoramica lenta verso Miramare.
L’ombra tira su un velo dalle rive verso i piani alti dei palazzi, i bagliori del faro cantano Vittoria e il teng-teng delle sartie ci avvisa che inizia a soffiare vento da terra. Il ligure che è in me pensa: ‘Tramontana...Strano che venga da là.’ ma la bussola mi fa segno e dice Mona, qua se ciama Borin e vien de nord-est. —
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