La sinagoga simbolo di rinascita

Esotica, eclettica, rimane una delle maggiori testimonianze della città multireligiosa sin dal 1912. Prese il posto delle Scole che dalla metà del Settecento avevano servito alla necessità di culto degli ebrei triestini
Ultimo residuo del ghetto ebraico in un’immagine del 1939. Fototeca Civici Musei di Storia ed Arte
Ultimo residuo del ghetto ebraico in un’immagine del 1939. Fototeca Civici Musei di Storia ed Arte

Esotica, eclettica, tra le più grandi d’Europa, la sinagoga è uno dei simboli di Trieste multireligiosa. Con Roma, Genova e Livorno è considerata tra le sinagoghe monumentali italiane del Novecento. Inaugurata nel 1912, prese il posto delle quattro Scole esistenti, demolite negli anni Trenta quando Cittavecchia venne sventrata, borgo dove si conserva a tutt’oggi la memoria dello storico ghetto. Architettonicamente affascinanti, i luoghi del culto raccontano dello sviluppo di Trieste dal Settecento al Novecento, improntandone l’urbanistica.

Tra il 1907 e il 1912 gli architetti Ruggero e Arduino Berlam, padre e figlio, costruirono l’edificio ispirandosi all’arte siriaca. La realizzarono nello storico Borgo Franceschino, progetto di urbanizzazione voluto nel 1796 da Francesco I d’Austria, che si sviluppava a nord della via del Torrente (oggi via Carducci), tra la contrada del Molino Grande (oggi via Battisti) e la contrada del Coroneo, zona dove i padri mechitaristi armeni coltivavano ortaggi. L’area era destinata a far crescere la città, in piena espansione grazie alle attività dell’emporio. Nel 1800, infatti, con un’ordinanza si invitava a stabilirsi nel borgo sellari, bottari, carrari, rematori, alboratori, tagliapietra e marangoni.

Ultimo residuo del ghetto ebraico in un’immagine del 1939. Fototeca Civici Musei di Storia ed Arte
Ultimo residuo del ghetto ebraico in un’immagine del 1939. Fototeca Civici Musei di Storia ed Arte


Non è dunque un caso che sul terreno nel quale venne edificata la sinagoga, allora in zona Corsia Stadion (oggi l’edificio di culto è in piazza Giotti) preesistesse un vecchio grande granaio – racconta Fabio Zubini nel libro dedicato al Borgo Franceschino – dove dal 1892 al 1899 operò la falegnameria di Carlo Cante con circa 150 operai tra falegnami, stipettai, mobilieri, intagliatori e tornitori. Cante acquistò i primi macchinari per la lavorazione del legno. Ebbe la tecnologia, ma anche le autorità contrarie. Gli fu infatti intimato lo sgombero dei locali a causa del rumore molesto delle macchine e per il loro peso che gravava sulle pur robuste travature dell’edificio dato che la falegnameria si trovava al primo piano dello stabile: l’attività, mancato Carlo Cante nel 1896, venne trasferita dai figli in via Piccardi.

Il 15 aprile 1907 la Comunità israelitica presentò al Municipio gli originali del progetto Berlam. In rapida successione la costruzione venne affidata nel 1908. Nel giugno del 1910 venne completata la copertura e il 6 maggio 1912 l’edificio venne consegnato alla comunità alla presenza delle autorità cittadine guidate dal governatore, il principe di Hohenloe.

Guardando il tempio si è colpiti dalla commistione orientaleggiante di stili diversi, mescolati secondo il gusto dell’epoca e da suggestioni Secession e Jugendstil che si amalgamano in una struttura di grande impatto, con interni luminosi, coronati da quattro possenti pilastri che sorreggono la grande cupola centrale.

La nuova struttura prese il posto delle Scole che dalla metà del Settecento avevano risposto alle necessità di culto degli ebrei triestini, soddisfacendo le esigenze di una Comunità sempre più fiorente e commercialmente intraprendente che nel 1938 arrivò a quasi 6 mila membri. Usualmente nell’Italia nord orientale l’architettura delle Scole si caratterizzava per il fine decoro di arredi e interni, mentre l’esterno era modesto e anonimo. Nella maestosità architettonica della sinagoga, ben diversa dalla modestia che caratterizzava gli esterni delle vecchie Scole, si manifesta invece il senso di un ruolo e di un’appartenenza alla città di Trieste. Un’appartenenza che affonda le radici in un passato lontano, nel Medioevo.

Fu poi con un editto imperiale, nel novembre 1696, che Leopoldo I istituì il ghetto nella zona di Riborgo, nella città vecchia, a ridosso dell’odierna piazza Unità. Era formato da un largo e da una via, che si staccava da Riborgo, si allungava attraverso la piazza delle Scole e si concludeva in via delle Beccherie, dove oggi c’è la Tor Bandena. Era una via chiassosa, vitale che si svolgeva attorno all’artistica antica sinagoga. Il ghetto era perimetrato da un muro intervallato da tre porte con poca o nulla sorveglianza da parte degli addetti cattolici, pagati dalla comunità israelitica: una era in cima alla via delle Beccherie, una in piazza del Rosario e la terza a Riborgo. Le botteghe al suo interno erano chiuse il sabato e potevano rimanere aperte di domenica, contrariamente a quanto avveniva in altre città provovando più di qualche malumore.

L’impulso decisivo ai traffici e allo sviluppo della città fu dato da Carlo VI, che con vari provvedimenti tra cui nel 1719 l’istituzione del Porto Franco a Trieste, incoraggiò l’insediamento di commercianti stranieri in particolare Corfioti, Greci, Ebrei.

Nel 1746 venne costruita verso la via delle Beccherie la prima sinagoga pubblica, di rito tedesco, come testimonia la dedica di un lavabo lì esistente. Nel corso del secolo sorsero anche la Scola Grande e la Scola Spagnola, che trovarono spazio in un edificio in stile veneziano che strizzava l’occhio al barocchismo progettato dall’architetto Francesco Balzano, sorto al posto della vecchia sinagoga nella piazzetta del ghetto. Una curiosità: nell’attigua via, due poggioli in pietra e chiusi a vetrata facevano come a Venezia un ponte di unione tra le due case dirimpettaie. Un’elegante e suggestiva soluzione amata e ritratta da fotografi e pittori dell’epoca, anche stranieri. Nel 1790 in una casa del Corso, vedrà la luce la quarta sinagoga, la scola Vivante, che nel 1829 verrà trasferita in un nuovo edificio all’inizio di via del Monte.

Nel 1735 i commercianti di più distinta condizione poterono andare a vivere fuori dal ghetto e nel 1785 le porte vennero abbattute: molte famiglie si trasferirono nella città nuova, in particolare nel Borgo Teresiano, nella quale faceva bella mostra di sè il Canal Grande “pieno zeppo di navi – racconta un viaggiatore del 1803 – una foresta d’alberi che contrasta con belle case da entrambi i lati”, apprezzata meta di visita per i viaggiatori di primo Ottocento.

Nel 1781-1782 vengono emanate da Giuseppe II delle Patenti di tolleranza con cui si avvia un processo d’emancipazione civile che punta a rendere i numerosi sudditi ebrei utili allo sviluppo economico, finanziario e commerciale dell’Impero. E il 30 agosto 1785 si stabilì definitivamente la chiusura del ghetto, in armonia con il clima di sviluppo commerciale e sociale della città.

“Il mercantilismo e la navigazione a vapore – scriverà poi Giani Stuparich nel 1949 – svegliano alle più allettanti fortune Trieste che, posta nel cuore marino del Centro-Europa, fa da tramite fra le regioni d’Oriente e d’Occidente”. Di “uomini intraprendenti Trieste diventa terra feconda”, aggiunse, sottolineando che “persino la vecchia casta nobiliare, musona e tradizionalista, si scuote e non esita ad aprire i suoi cancelli ai migliori dei nuovi venuti”.

L’odierno volto urbanistico di Riborgo conserva i segni e il temperamento commerciale di quello che fu l’antico ghetto, vivace indirizzo di antiquari e piccole botteghe, ricordo di un passato cancellato negli Anni Trenta con lo sventramento edilizio di Cittavechia attuato durante il fascismo. –

(14, parte II – Continua)


 

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