La Sala Tripcovich col sipario goliardico Salvarla? Un paradosso
l’analisi
gianni contessi*
Come docente triestino di Storia dell’arte contemporanea nelle università italiane e curatore della mostra su Umberto Nordio alla Triennale di Milano (1981), vorrei intervenire per riflettere sulla questione Sala Tripcovich.
Procederò per punti, per rendere il più chiaro e schematico possibile il mio pensiero.
Punto primo. Nel catalogo delle opere dell’architetto Nordio realizzate negli anni Trenta del Novecento, la Stazione autocorriere non è edificio di particolare pregio, al contrario di ben più riuscite costruzioni, come la Stazione marittima, il Museo del Risorgimento, la palazzina ex Onmi, la casa Zelco e la casa Ras.
Punto secondo. Il destino dell’architettura è reso precario da manomissioni e distruzioni; valga per tutti il caso di Bernini che, a Roma, non esitò a eliminare il palazzo Branconio dell’Aquila di Raffaello.
Sono risaputi il prolungato utilizzo del Colosseo come cava di pietra e le superfetazioni gravanti sul Teatro di Marcello. A Trieste a fine Ottocento venne serenamente demolita villa Murat.
In anni recentissimi la parte meno antica della sede del Corriere della Sera, opera di qualità di Alberto Rosselli, è stata molto modificata da Vittorio Gregotti. Gli uffici triestini del Lloyd Adriatico di Luciano Celli hanno cambiato radicalmente i connotati come sede del gruppo Allianz.
Non pertanto si vuol sostenere che l’architettura debba necessariamente subire gli oltraggi degli umani e quelli non meno umani della storia, ma che la misura dell’autorialità non è di per sé un valore assoluto. Il già citato “palazzo” Ras, lavoro fra i più raffinati di Nordio, impreziosito da interventi di Achille Funi, Felicita Frai e Ugo Carà, ha subito in anni non lontani affronti gravissimi nell’indifferenza dei più. La stessa ex stazione autocorriere, per come si presenta oggi, non può più essere considerata opera originale e “autentica” di Nordio. Retrospettivamente, ciò che giustificherebbe un vincolo sarebbe la sopravvivenza dello spazio che ospitava, entro apposite corsie, coincidenti con le tipiche saracinesche a carrucola, le corriere di linea, ben più piccole di quelle odierne. Però tutto questo e il resto dei servizi connessi sono stati eliminati per realizzare la pur utile e, allora necessaria, Sala Tripcovich, grazie alla generosità del maestro de Banfield, cui va la riconoscenza della città.
Punto terzo. Si ribadisce, dunque, che al momento non sussistono neppure gli elementi caratteristici propri di una sorta di “archeologia industriale” di cui la stazione, garantita nella sua integrità, sarebbe stata testimonianza.
Punto quarto. Per quanto concerne l’atto mecenatesco di Raffaello de Banfield, non sarebbe difficile individuare opportuna forma di onoranza (busto? targa? intitolazione? nel Teatro Verdi, di cui fu brillante direttore artistico). Sempre che una cosa del genere non sia già stata fatta.
Non ci si può nascondere che la Sala Tripcovich, sebbene dotata, come dicono, di magnifica acustica, è stata prodotto della fretta e di stanziamenti limitati, come attestato dalla evidenza incresciosa dell’impiantistica.
Si aggiunga che il colore rosato della tinteggiatura e soprattutto il goliardico, mal eseguito intervento pittorico che vorrebbe evocare il tendaggio di un palcoscenico, contribuiscono a svilire la presentabilità dell’edificio.
Punto quinto. Il monumento all’imperatrice Elisabetta in origine era situato sul lato della piazza su cui insiste la Sala Tripcovich alias Stazione autocorriere, avendo per sfondo la facciata del Silo. La ricollocazione, una volta eliminata la presenza ingombrante dell’opaco volume di Nordio, non risulterebbe impropria e valorizzerebbe gli accessi monumentali al Porto vecchio, peraltro pensati da Giorgio Zaninovich. Ben inteso sistemando l’intero slargo in modi appropriati.
Punto sesto. A prescindere dall’eventuale, ma auspicabile spostamento del monumento all’imperatrice, va considerato che se dovesse prevalere la volontà di mantenere in vita la Sala, essa dovrebbe venire ripristinata secondo un decoro, attualmente e prima, inesistente, dotandola delle strutture che si erano tradotte in superfetazioni disdicevoli a base di containers addizionati al retro del corpo di fabbrica.
Il degrado dell’edificio, divenuto sala teatrale, nel tempo si è reso complice di quello complessivo dell’area prospiciente il Silo.
Punto settimo. Secondo le norme che regolano la conservazione dei manufatti di interesse storico e/o artistico, essi devono mantenere le tracce delle varie stratificazioni che ne hanno determinato l’assetto. Ciò a volte dà luogo a situazioni stridenti, ma, per dirla brutalmente: “È la Storia, bellezza!”.
Per rispettare tali norme si dovrebbero paradossalmente mantenere sia le tracce di una stazione autocorriere che non c’è più, sia una sala teatrale da modificare radicalmente. Ricostruire la stazione per come essa si presentava fino a quando è rimasta attiva sarebbe impossibile, ma solo a queste condizioni un vincolo troverebbe qualche giustificazione.
Ribadisco: un paradosso.
*Professore ordinario fuori ruolo di Storia dell’arte contemporanea, Università di Torino
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