La nave dell’Imperatore scomparsa nella tempesta non arrivò mai a Trieste

In un libro pubblicato da Luglio editore Andrea Falconi e Pierpaolo Zagnoni ricostruiscono la vicenda del Marianna, la prima unità a vela e vapore della Marina Austroungarica 
Pietro Spirito

la recensione



Una nave scomparsa nella tempesta con tutto il suo equipaggio nel marzo del 1852. La scoperta del suo relitto ai nostri giorni, e la ricostruzione di una vicenda per anni rimasta quasi dimenticata negli annali della marineria dell’alto Adriatico. Sono gli ingredienti del libro “Sulla nave dell’Imperatore” di Andrea Falconi e Pierpaolo Zagnoni, (Luglio editore, pagg. 181, euro 24), volume ricco di illustrazioni e documenti che ricostruisce la storia della fregata Marianna, la prima unità a vapore della Marina austro-ungarica, di cui si conserva memoria anche a Trieste, terminale di una tragedia che, dicono gli storici, poteva essere evitata.

Tutto comincia nel febbraio del 1852, nel corso del quarto viaggio in Italia dell’allora giovane imperatore Francesco Giuseppe in poco meno di un anno. Viaggio, notano gli autori del libro, volto “ad accattivarsi ed a rinsaldare quella fiducia e quella vicinanza alle popolazioni che l’Impero Austriaco aveva profondamente ferito negli anni difficili della rivolta del 1848-49”. Così il 27 febbraio l’imperatore è a Trieste, dove passa in rassegna le navi da guerra alla fonda. Il giorno dopo Francesco Giuseppe parte alla volta di Venezia a bordo del piroscafo Santa Lucia, scortato dagli altri piroscafi a vapore Seemöve, Volta e Marianna. A Venezia il sovrano si ferma fino al primo marzo, poi parte in treno alla volta di Verona. Il 3 marzo torna a Venezia, da dove ha intenzione di salpare il giorno dopo per tornare via mare a Trieste. Ma già da qualche giorno il tempo si è guastato, e la mattina del 4 marzo le condizioni del mare appaiono proibitive, con forte vento da est e mare un burrasca. Nonostante il parere contrario degli osservatori, Francesco Giuseppe decide di partire lo stesso con la flottiglia di scorta imbarcandosi sul piroscafo Volta. “Si raggiunge allora la convinzione - scrisse la Gazzetta Ufficiale di Venezia il 9 marzo 1852 - che non via sia per i naviganti immediato pericolo, ritenendo che un valente uomo di mare non debba mai scansare simili eventualità, essendo oltretutto per il giovane Imperatore l’occasione buona per dimostrare la propria attitudine al comando e verificare in prima persona il sentimento di dovere dei subalterni”.

In breve il Seemöve parte in avanscoperta, rischiando il naufragio, presto seguito dal resto della fotta composta dal Volta, il Santa Luca, il Marianna e il Vulcano. Ben presto il mare in burrasca scompiglia la formazione: il Seemöve torna indietro, il Santa Lucia ripara a Rovigno seguito dal Volta con a bordo l’imperatore, il Vulcano cambia rotta.

E il Marianna? Scomparso. Il glorioso piroscafo a ruota dove un giovanissimo Francesco Giuseppe aveva per la prima volta preso il mare è svanito tra i flutti con tutti i centoventi uomini dell’equipaggio. Mentre da Rovigno il sovrano raggiunge in carrozza Trieste con il suo seguito, le speranze di vedere ricomparire il Marianna si fanno via via più flebili. Finché, alcuni giorni dopo, mentre si fa la conta dei disastri combinati dalla tempesta lungo tutto l’Adriatico settentrionale, tra Porto Tolle e Chioggia il mare restituisce i primi resti della nave. Il cui relitto alla fine viene individuato tra Punta Maistra e Chioggia, a nove metri di profondità.

Secondo i primi rilievi effettuati dai palombari non è stato il mare a far naufragare il Marianna, ma un’esplosione a bordo, “un accidentale infortunio - si legge nel rapporto ufficiale - il quale in alto mare, di notte e con un tempo burrascoso, assai di rado può essere rimosso in modo da rendere possibile di salvare il naviglio e le persone imbarcate sul medesimo”.

La stampa italiana si scatena ironizzando sulle capacità marinare dell’imperatore austriaco che per puro puntiglio ha fatto naufragare e morire i suoi marinai, ma la tragedia spinge l’imperatore stesso a mettere in atto tutta una serie di prebende e aiuti per i familiari delle vittime. Le quali vittime - a parte alcuni corpi portati a riva dalle correnti - non verranno più ritrovate. Dopodiché sulla tragedia un po’ alla volta cala il sipario del tempo.

Finché, e arriviamo ai nostri giorni, il cerchio si chiude. Nell’ambito di un vasto e pluriennale programma di ricerca, studio e catalogazione dei relitti del Golfo di Venezia, alcuni anni fa il side scan sonar dei ricercatori individua i resti di quello che, semisepolto nella sabbia, ha tutta l’aria di essere lo scafo di un piroscafo a ruote. I subacquei lo esplorano e recuperano la campana di bordo che, benché senza nome, sarà fondamentale per l’identificazione della nave: quei resti in fondo al mare sono proprio ciò che rimane del Marianna.

Nel loro libro Andrea Falconi e Pierpaolo Zagnoni, esperti esploratori subacquei e protagonisti della campagna di ricerche nelle acque venete, con la collaborazione del capitano Nicola Odoardo Falconi, cultore di storia militare, ricostruiscono nel dettaglio tassello per tassello la storia del Marianna. Scavando negli archivi, interrogando musei e biblioteche, soffermandosi sugli aspetti tecnici (in appendice c’è la “trascrizione completa e fedele dei principali documenti” utilizzati trovati all’Archivio di Stato di Venezia), gli autori fanno letteralmente riemergere dal fondo del mare una vicenda che per vari aspetti offre nuove chiavi di lettura di un importante capitolo della storia dell’Alto Adriatico e delle nostre terre, aprendo di fatto nuovi orizzonti di ricerca all’archeologia subacquea. —

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