La morte dell’amato fratello a Porzûs non allontanò Pier Paolo dal comunismo

TRIESTE I "fatti di Ramuscello" - lo scandalo a sfondo sessuale che coinvolge Pier Paolo Pasolini nell'agosto 1949 e le cui conseguenze lo spingeranno, all'inizio dell'anno successivo, a lasciare il Friuli per trasferirsi a Roma - vengono comunemente definiti "il grande trauma" nella vita dello scrittore: trauma che sarà, peraltro, all'origine di una fervida stagione creativa, quella legata alla scoperta delle borgate e del sottoproletariato romano. Ma nell'esistenza di Pasolini solo pochi anni prima c'era stato un altro trauma, ancora più forte: la morte del fratello Guido, più giovane di lui di tre anni. Nel febbraio del '45 Guido, ventenne partigiano nella brigata Osoppo, legata al Partito d’azione, era stato ucciso dai partigiani comunisti che combattevano per l’adesione del Friuli alla Repubblica iugoslava di Tito. Il colpo fu durissimo, sia sul piano degli affetti sia su quello politico: Pier Paolo stava maturando un avvicinamento all'ideologia marxista, che lo porterà, alla fine del 1947, a iscriversi al Pci, partecipando assumendo anche ruoli di responsabilità a livello locale.
E se nel '49, dopo i fatti di Ramuscello, ne verrà cacciato «per indegnità morale» (così recitava il testo della motivazione ufficiale della sua radiazione dal Partito), Pasolini continuerà, anche negli anni successivi, a proclamarsi comunista. La sincerità della sua adesione al comunismo si misura proprio in relazione al fatto che, pensando alla morte del fratello per mano dei partigiani titini, Pier Paolo avrebbe avuto tutte le ragioni, sul piano personale, per essere anticomunista. Fu invece in grado di scindere i due aspetti, nonostante la tragedia che aveva vissuto la sua famiglia.
Questa vicenda viene ripercorsa con dovizia di dettagli dalla ponderosa e documentatissima biografia pasoliniana data alle stampe in una nuova edizione aggiornata da Barth David Schwartz per La nave di Teseo: “ Pasolini Requiem”. Emerge che Guido adorava il fratello maggiore come un eroe, della cui approvazione aveva sempre bisogno. Il pomeriggio del 7 febbraio 1945 il ragazzo e altri giovani combattenti avevano preso posizione sulle colline sopra Porzûs. I compagni che dovevano rilevarli non arrivarono mai, essendo stati catturati e uccisi come “spie”. Guido fu fatto prigioniero assieme ad altri tredici, tutti destinati a essere giustiziati dopo un processo sommario di fronte ai “giudici” della brigata Garibaldi. Venne convocata una riunione politica, e Guido gridò ai propri secondini che «i comunisti conoscevano, quanto a giustizia, solo quella del "colpo alla nuca"». Ai processi che si tennero dopo la guerra a Pisa e Brescia (Pier Paolo fu presente a entrambi, per testimoniare contro gli imputati di omicidio) al fine di fare luce sull’eccidio, i testimoni riferirono che nessuno si era preoccupato di rispondere a quelle parole.
Sembra che a Guido fosse stata offerta la possibilità di salvarsi passando dall’altra parte: se si fosse aggregato alle forze di Tito, gli sarebbe stata risparmiata la vita. Ma l’offerta venne respinta. Circolarono alcune voci, poi dimostratesi prive di fondamento, secondo cui i martiri della Osoppo furono trucidati a colpi di martello. Invece il 12 febbraio Guido venne costretto a scendere nella fossa preparata per lui e finito a colpi di arma da fuoco. In seguito 36 imputati, tra cui alcuni leader comunisti locali, vennero condannati dal tribunale di Lucca; pur comminando qualche anno di reclusione, la sentenza li assolse dall’accusa di tradimento. La notizia ufficiale della morte di Guido raggiunse Casarsa solo tre mesi più tardi, alla fine di maggio. Dopo i funerali a Udine, Guido venne sepolto nel cimitero di Casarsa, in una fossa comune con altre vittime dell'eccidio. Pier Paolo apprese la notizia mentre passeggiava con la cugina Annie, vicino a Versuta, la frazione di Casarsa dove era sfollato con la madre. E fu lui a dover informare quest'ultima: uno dei momenti più duri di cui potrà avere memoria.
Di questo dolore inenarrabile abbiamo traccia in una lettera straziante. Il 21 agosto 1945 Pasolini scrive a Luciano Serra, suo amico e compagno di studi a Bologna, per raccontargli quello che in famiglia si sapeva dell'eccidio: «Non posso scriverne senza piangere, e tutti i pensieri mi vengono su confusamente come le lacrime. Dapprincipio non ho potuto provare che un orrore, una ripugnanza a vivere, e l’unico, inaspettato conforto, era credere all’esistenza di un destino a cui non si può sfuggire, e che quindi è umanamente giusto. Tu ricordi l’entusiasmo di Guido, e la frase che per giorni e giorni mi è martellata dentro, era questa: Non ha potuto sopravvivere al suo entusiasmo.
Quel ragazzo è stato di una generosità, di un coraggio, di una innocenza, che non si possono credere. (...) io adesso vedo la sua immagine coi suoi capelli, il suo viso, la sua giacca, e mi sento afferrare da un angoscia così indicibile, così disumana. (...) Perciò l’unico pensiero che mi conforta è che io non sono immortale; che Guido non ha fatto altro che precedermi generosamente di pochi anni in quel nulla verso il quale io mi avvio». Sarebbe successo trent'anni dopo, nella notte tra il 1° e il 2 novembre 1975, all'Idroscalo di Ostia: un omicidio altrettanto barbaro e assurdo. —
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