La malìa di Trieste “seduce” Augias
«Città straordinaria di un’Italia rabbiosa»

Si sente spesso provocatoriamente osservare come gli italiani si sentano tali solo quando scende in campo la Nazionale di calcio. Per altri invece siamo una nazione di patriottici “intermittenti”, con quel sentimento di coesione e unità che s’accende o si spegne, a seconda degli accadimenti che investono il Paese, proprio come un interruttore. Perché possiamo dirci italiani? Esiste ancora, in questi anni tormentati, uno spirito identitario nazionale; e se sì, dove affonda le sue radici? Sono gli interrogativi cui intende rispondere
Corrado Augias
in “
Questa nostra Italia
”, uscito in questi giorni per
Einaudi
(
collana Frontiere, pagg. 345, euro 20
).
Dopo l’apprezzata serie dei “segreti” di New York, Londra, Parigi, stavolta il giornalista e scrittore getta lo sguardo al suo Paese, considerandolo nella sua interezza e insieme nella sua incredibile varietà e complessità: per farlo, prende per mano il lettore e lo conduce attraverso un viaggio lungo lo Stivale, in quei “luoghi del cuore e della memoria” significativi per la sua vita – una vita ricca, fitta di eventi, incontri, avventure e bizzarri cortocircuiti che intersecano la grande Storia - quanto per la nostra memoria collettiva. E se scavare alla ricerca di un’identità, dell’anima del nostro Paese, significa scandagliare il territorio da nord a sud, tra città ma anche borghi di provincia, non può mancare un capitolo – “Una scontrosa grazia”, 24 pagine dense e importanti – dedicato alla nostra regione e, soprattutto, a una Trieste «dal fascino misterioso», multiculturale, multietnica e dove il concetto d’identità sembra rivestire un significato a sé stante.
Prima che il viaggio cominci però, Augias traccia alcune linee guida del suo procedere. È un’Italia, quella dei nostri giorni, che gli appare «profondamente delusa e sfiduciata come mai nella sua storia, dalla fine della guerra», con i suoi cittadini «divisi tra rabbia e lamento, in una parola, malati». Un declino che coincide con gli anni della crisi economica, «quando sono finiti gli anni grassi» e quell’ubriacatura collettiva ha presentato il conto. Ma non parlerà tanto dell’attualità, avverte subito. «Da Torino a Palermo – scrive - sono andato invece alla ricerca di indizi lasciati dalla storia, ho cercato di vedere se negli avvenimenti di un passato più o meno recente sia possibile scorgere in germe la causa di quanto sta accadendo». Per farlo, ed è questo uno dei tratti che più caratterizzano il libro, si affida a scrittori e poeti: «credo che in loro ci sia una specie di sesto senso – sottolinea - che gli consente di captare al primo apparire segnali che alle persone comuni sfuggono o vengono colti più tardi».
Così, “Una scontrosa grazia”, il cui incipit prende le mosse dalla questione dei confini, tema centrale per Augias che ne ripercorre le drammatiche vicende, non può non essere costellata dei tanti autori locali attraverso i quali l’autore legge e decifra il territorio, a volte concedendosi piacevoli divagazioni. «Se si calcola, anche solo a mente, il numero di scrittori nati a Trieste o che l’hanno scelta o raccontata – scrive - si rimane stupiti perché superano la consueta densità media. Nelle sue strade deve circolare una malia, un fermento che altrove non c’è». Ecco Saba: «di un suo verso ho fatto il titolo di questo capitolo. Saba lo riferisce a Trieste, io, più in generale, all’intero Friuli-Venezia Giulia».
Ed ecco, in un fitto gioco di rimandi tra passato e presente, Claudio Magris e l’«identità di frontiera» del suo saggio d’esordio («Uno dei testi che hanno cambiato la mia visione dell’Europa»), Mauro Covacich e il concetto di «città interiore». E ancora Quarantotti Gambini (l’idea di triestini come “italiani sbagliati”), e naturalmente Italo Svevo, Bobi Bazlen, Silvio Benco. «Si lascia la città – scrive alla fine - con la sensazione di una straordinaria ricchezza compressa in pochi chilometri quadrati, accade in pochi altri posti del pianeta». C’è anche spazio per il sorriso, nella parte iconografica, con Augias abbracciato alla statua di James Joyce («m’attrae soprattutto il periodo che passa al secondo piano di un alloggio in via Bramante, sul colle di San Giusto», scrive) o quando si lascia andare al racconto della scoperta, in una visita al Museo Revoltella, del suo “sosia”. “Ritratto di anziano” di Giuseppe Tominz, in effetti, sembra un fake, un’immagine photoshoppata ad arte tanta è la somiglianza con l’autore. Che ci scherza su ma al contempo induce comunque a una riflessione: perché pur sempre d’identità, alla fine, si tratta.
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