La lunga guerra del soldato Bruno uomo qualunque

Marta Verginella ripercorre la biografia di un antieroe triestino e sloveno
Di Pietro Spirito

di Pietro Spirito

Non sparò mai un colpo, non partecipò a nessuna battaglia, non vide mai la morte in faccia. Rimase sempre nelle retrovie, preoccupato principalmente di mangiare e dormire bene, coltivando la speranza di riabbracciare il prima possibile la sua famiglia. Eppure quella di Bruno Trampuž, triestino sloveno nato nel 1909 e morto nel 1968 a 59 anni, è una vicenda esemplare e, a suo modo, straordinaria. Perché nella sua assoluta normalità la vita di Bruno Trampuž può essere presa a paradigma di una condizione storica, sociale e psicologica tipica di queste terre: quella degli sloveni di Trieste a cavallo fra le due guerre mondiali. Una condizione - simile per altro a quella di altre etnie locali - che si potrebbe riassumere nell’idea di un’identità mobile, di un carattere soggetto ai molteplici mutamenti della Storia, di una personalità liminare in balia di mille destini e allo stesso tempo ancorata a una visione forte della vita, distaccata ma mai cinica, partecipe dei fatti eppure libera di compiere scelte spiazzanti. Bruno Trampuž fu una specie di “buon soldato Sc'vèik” la cui biografia racchiude in sé i significati, i modi e i simboli di una terra, l’area giuliana, prima appartenuta all’Impero asburgico, dopo il 1918 al Regno d’Italia, annessa al Terzo Reich dal 1943 al ’45, diventata jugoslava per quaranta giorni, passata sotto l’amministrazione angloamericana e jugoslava e infine divisa in due nel 1954 con il confine tra Italia e Jugoslavia sancito definitivamente dal Trattato di Osimo nel 1976. Una biografia che . Marta Verginella ha ricostruito con il rigore della storica e la capacità della scrittrice nel libro “La guerra di Bruno” (Donzelli, pagg. 219, euro 26,00), ovvero “L’identità di confine di un antieroe triestino e sloveno”. Alla base del lavoro, l’archivio di famiglia di Bruno Trampuž, in cui sono conservati i suoi diari - in particolare le 585 pagine distribuite in cinque quaderni da lui stesso intitolate “Moj vojni dnevnik” (“Il mio diario”) - e decine di lettere, la maggior parte scritte in sloveno ma anche in italiano. Un “corpus” memoriale strepitoso che, nato dall’esigenza quasi maniacale del suo autore di annotare ogni particolare delle proprie esperienze belliche, ha permesso a Marta Verginella di fare ciò che raramente capita di fare a uno storico: ricostruire in modo scientifico la vita una persona assolutamente qualunque, una persona che non fa storia, ma che della storia fa parte, come tutti noi: «Rifacendoci alla tipologia di Raul Hilberg - nota Marta Verginella - potremmo collocarlo tra gli spettatori, i by standers, nella cosiddetta zona grigia».

Antieroe per eccellenza, in realtà Bruno Trampuž ha toccato tutte le tappe comuni a tanti sloveni della Venezia Giulia. Socialmente collocabile «al crocevia tra mondo operaio, mondo contadino e mondo-piccolo borghese», abile «ad adattarsi alle più svariate circostanze della vita», Bruno non aveva nemmeno dieci anni quando finì la Prima guerra mondiale e Trieste passò sotto il Regno d’Italia. Per ragioni di classe d’età riuscì a evitare la “pedagogia di confine” voluta dal fascismo, e pur non avendo studiato l’italiano alle scuole elementari «divenne un bambino bilingue», ma di un «bilinguismo di strada», appreso più a Trieste - dove viveva e lavorava il padre - che a Sesana, dove viveva la madre. Nonostante ciò durante il ventennio Bruno militò nelle file antifasciste slovene, e sebbene il suo impegno fu limitato, finì in carcere due volte e subì anche l’internamento, due mesi a Oppido Lucano nel 1941. Al compimento della maggiore età, nel 1928, richiamato alla leva, aveva vestito la divisa dell’esercito italiano come artigliere, divisa che dopo l’internamento dovrà indossare di nuovo: inviato a Padova nel 1942 raggiunse nel febbraio del 1943 le retrovie del fronte tunisino, dove venne fatto prigioniero dagli inglesi e spedito in un campo in Algeria. Qui si arruolò nel regio esercito jugoslavo, per poi aderire al movimento di liberazione jugoslavo, e quindi alle unità partigiane che operavano sotto il comando della Raf, prima in Egitto e poi in Puglia. Con la divisa dei partigiani di Tito raggiunse l’isola di Lissa e da qui la base dell’aeronautica jugoslava a Prkos, nei pressi di Zara. Riuscì a tornare a Trieste solo nel giugno del 1945, in licenza, probabilmente proprio mentre le truppe jugoslave lasciavano la città, e potè conoscere finalmente la figlia Marta nata poco dopo la sua partenza per la guerra. A conflitto finito, ottenuto il congedo da partigiano, «per Bruno il ritorno alla società civile fu difficile, tanto che decise di informare la direzione politica jugoslava della sua condizione». Ma ormai, nella Trieste dell’immediato dopoguerra, l’ex militante antifascista, ex internato slavofono, ex artigliere italiano, ex soldato monarchico jugoslavo, ex partigiano di Tito «apparteneva a un mondo ormai superato, a quel milieu liberal-nazionale lontano dagli ideali comunisti, politicamente inaffidabile».

Di tutto questo turbinìo Bruno Trampuž ci ha lasciato una memoria dettagliata, che oggi ci permette «di entrare in rapporto con l’individuo in una speciale intimità con la sua vicenda personale, ci aiuta a capire meglio le lacerazioni prodotte dal fascismo e dalla guerra nella vita privata, nella sfera emotiva della popolazione slovena, a cogliere quelle tonalità delle vicende personali che rientrano nella “zona grigia”».

Sotto le armi Bruno «sfruttò tutti gli spazi di autonomia che il sistema lasciava ai soldati più ingegnosi, intraprendenti e smaliziati ovvero a tutti coloro che non nutrivano nessun timore ma nemmeno nessun amore nei confronti della gerarchia e dell’apparato militare». Soprattutto durante il periodo in Tunisia la guerra di Bruno è fatta di eventi minimi, di una sostanziale non-belligeranza in cui il soldato Trampuž non se la passa nient’affatto male: mangia bene, dorme comodo, è benvoluto dagli ufficiali, si preoccupa soprattutto di non farsi mai mancare una buona suha pašta, la pastasciutta, vero e proprio leit motiv dei suoi scritti. Anche i bombardamenti alleati più di tanto non lo scuotono, e se pure evita accuratamente qualsiasi atto vicino al combattimento perché la guerra dell’odiato Mussolini non è la sua guerra, pure non nasconde un certo patriottismo quando è convinto che l’Italia vincerà. Cambierà opinione una volta fatto prigioniero, esprimendo finalmente senza censure tutto il suo disprezzo per i “lhai”, gli italiani ipocriti e traditori. Ma nemmeno i serbi della monarchia jugoslava gli andranno molto a genio, e alle fin fine anche Tito, che ha mollato Trieste, sarà una delusione. Rimarrà l’amore intaccabile per la sua famiglia e per «la nostra Primorska», la Slovenia.

Marta Verginella è bravissima nel condurre il lettore in questo labirinto identitario ed emotivo, fino agli ultimi anni, quando Bruno «viveva da triestino, oscillando tra uno stile di vita e una mentalità piccolo-borghesi da una parte e il mondo e i valori della comunità slovena dall’altra». Una vita che in definitiva, osserva giustamente Verginella, ci ricorda «quanto sia discutibile la coerenza di certe narrazioni riguardanti la storia del confine giuliano», e «come troppo univoche siano le ricostruzioni storiografiche che si concentrano su identità culturali e nazionali nella oro forma collettiva» senza «appurare come nella precarietà dell’esistenza dei singoli le risorse identitarie diventino fonte di sopravvivenza».

©RIPRODUZIONE RISERVATA

Riproduzione riservata © Il Piccolo