La Jugoslavia copiava Sanremo sognando un mondo più libero

di PIETRO SPIRITO
Il festival di Sanremo, le canzoni di Adriano Celentano e Rita Pavone, le coprudizioni cinematrografiche, lo shopping a Trieste: fra il 1955 e il 1965 l’influenza della cultura italiana di massa in Jugoslavia fu un filtro che permise il travaso di fenomeni e modelli culturali occidentali nella Jugoslavia di Tito. Un fenomeno vasto, che oggi appare per molti versi sorprendente, e che la giovane storica Francesca Rolandi racconta nel suo libro “Con ventiquattromila baci - L’influenza della cultura di massa italiana in Jugoslavia (1955-1965) (Bonomia University Press, pagg. 195, euro 25,00). Quella veicolata dalla cultura pop attraverso radio, dischi, televisione e piccolo commercio transfrontaliero, dimostra nel suo libro la studiosa, era un’Italia tutto sommato immaginata e poco aderente con quella reale, ma per tanti jugoslavi rappresentò uno specchio delle aspettative legate a un futuro diverso al di là del confine.
. La tesi sostanziale del libro è che i modelli culturali italiani fecero da "filtro" a quelli occidentali, anche statunitensi. In questo senso Trieste che ruolo ha avuto?
«Trieste - risponde Francesca Rolandi - ebbe un ruolo di primo piano come luogo di negoziazione di modelli culturali occidentali. Lo ebbe sicuramente nel periodo del Governo militare alleato, quando i nuovi trend arrivarono con i militari angloamericani che vi rimasero di stanza per quasi un decennio. Ma anche più tardi, quando Trieste ritornò all'Italia e iniziò ad essere frequentata sempre più spesso dagli jugoslavi, continuò ad essere un luogo di transizione tra sistemi politici e sfere culturali. Esisteva una catena di influenze, che dal mondo angloamericano passava per l'Italia, poi per Trieste, la Jugoslavia e infine i paesi dell'Europa orientale. A Trieste i cittadini di un paese socialista facevano esperienza di un sistema economico capitalista, vi familiarizzavano, ma si trattava sempre di distretti commerciali pensati per i turisti dell'Est».
A proposito dello shopping a Trieste, le "pupe" cioè le grandi bambole di porcellana, lei dice, e anche i jeans, si ammantavano di un significato simbolico. Perché?
«Le pupe, come altri oggetti, erano identificati, anche in maniera sensoriale, con un profumo di occidente, come qualcosa che abbelliva la casa. Ricordavano inoltre l'esperienza del viaggio in Italia. I jeans in tutta Europa erano portatori di un significato simbolico e di un'aura di ribellione per il mondo giovanile negli anni '50 e '60. Nella stampa jugoslava di quegli anni emergeva una condanna verso quel tipo di decadenza proveniente dall'occidente che veniva identificata con jeans, ma anche con le giacche di pelle, le pettinature alla Marlon Brando e un certo atteggiamento arrogante. Negli anni '70 invece il significato dei jeans cambiò, trasformandoli sempre più in un capo di abbigliamento alla moda».
Chi erano i "divi" italiani, fra cantanti e attori, più amati e seguiti?
«Erano molti sia nel mondo del cinema che in quello della musica leggera. Da Domenico Modugno ai primi cantanti rock - i cosiddetti urlatori - alle dive del cinema che erano in quel momento proiettate nello star system internazionale. In particolare, tra le dive venivano sentite vicine quelle che avevano in sé degli elementi popolareschi, legati alla loro biografia o ai ruoli interpretati, come Silvana Mangano, Sophia Loren o Gina Lollobrigida, che si prestavano perfettamente come icone proletarie».
Sorprende scoprire che le prime influenze musicali italiane entrarono in jugoslavia con i luna park. Come e quando fu possibile questo fenomeno?
«I riferimenti che ho incontrato risalgono agli anni '60 e ben esemplificano il modo in cui l'apertura del confine contribuì a una maggiore circolazione delle influenze culturali, anche grazie e in concomitanza con una maggiore mobilità degli individui, che portavano loro stessi prodotti culturali e nuove sonorità. Il luna park, inoltre, era una versione moderna - e commerciale - delle fiere che erano sempre esistite e che, oltre alla possibilità di scambi commerciali, offrivano una possibilità di evasione con spettacoli, prestigiatori, numeri da circo».
Qual era il rapporto fra la critica, diciamo il ceto intellettuale jugoslavo nei confronti di una cultura pop che in realtà, come giustamante ricordi, era amata anche da Tito?
«Sicuramente l'atteggiamento della leadership jugoslava può essere diviso in tre periodi. Nell'immediato dopoguerra la cultura pop era considerata un'arma propagandistica delle potenze occidentali e un prodotto della loro decadenza culturale. Un assunto che spesso sfociava nella paranoia ma che si fondava anche su un reale utilizzo della cultura pop da parte del blocco occidentale, come ben esemplifica la storia di Radio Luxembourg. Dai primi anni '50, una sempre maggiore apertura, unita a una liberalizzazione interna, permise l'apertura di spazi sempre maggiori per la cultura di massa e una sua accettazione all'interno delle politiche culturali mainstream. Già nella seconda metà degli anni '50 iniziò la ricerca di strade per incentivare la produzione di una variante "jugoslava", della cultura pop di matrice internazionale e si riconobbe la necessità di evasione delle masse di lavoratori in una società socialista. Questo fu fondamentale nel creare all'estero una nuova immagine della Jugoslavia, più aperta e cosmopolita, differente dal grigiore spesso associato ai paesi socialisti, ben incarnato dall'edonismo del presidente Tito che amava farsi fotografare con i protagonisti del bel mondo internazionale».
La tv italiana, la Rai, era molto seguita, da Carosello al Festival di Sanremo. Qual è stata l'influenza per esempio di Sanremo?
«Il festival di Sanremo fece da modello per molti festival jugoslavi, primo tra tutti quello di Opatija (Abbazia), che veniva definito anche dai giornali dell'epoca la Sanremo jugoslava. Come ha messo in luce lo storico Dean Vuletic, il festival di Opatija fu l'unico palcoscenico per artisti da tutta la Jugoslavia e tra le sue linee guida vi era anche quella di creare una propria musica leggera che rispondesse al bisogno di evasione del pubblico senza che dovesse per forza rivolgersi a modelli stranieri».
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