La guida al patrimonio architettonico triestino esce nella terza edizione

Mgs Press edizioni ripubblica “Trieste 1918 - 1954” con gli edifici nati negli anni della trasformazione

Diana Barillari
Il palazzo della Ras in piazza Oberdan negli anni Trenta
Il palazzo della Ras in piazza Oberdan negli anni Trenta

Tra i motivi per accogliere con favore la ristampa di “Trieste 1918-1954. Guida all’architettura” a diciannove anni dalla prima edizione (ora siamo alla terza) è che il volume curato da Paolo Nicoloso e Federica Rovello (MGS Press edizioni) si conferma una preziosa fonte di informazioni, supportate da fonti archivistiche, documentali e fotografiche, che lo rendono strumento primario per la conoscenza del patrimonio architettonico triestino.

L’arco cronologico individuato fotografa attraverso 46 edifici la metamorfosi della Trieste asburgica nella città italiana, quando la marcata impronta viennese/mitteleuropea arretra per fare spazio al linguaggio architettonico del ventennio, dove è un rincorrersi di archi, colonne, italica monumentalità che connota alcuni luoghi simbolo, la nuova piazza Oberdan, piazza della Borsa e il retrostante isolato che si affaccia sulla Trieste romana, principiando dal Teatro, individuato da Pietro Nobile sotto le case che lo avevano nascosto per secoli e riportato alla luce nel 1938, durante le demolizioni di Citta vecchia.La scheda numero uno è dedicata al Faro della Vittoria (1919, Arduino Berlam) svettante simbolo che celebra il primo agognato ritorno all’Italia, al quale farà seguito il secondo ritorno, nel 1954 a conclusione dei nove anni trascorsi sotto l’amministrazione del Governo Militare Alleato. La trasformazione si può leggere nel disegno del nuovo skyline cittadino dove al Faro si aggiungono l’Edificio centrale dell’Università (1938, Umberto Nordio e Raffaello Fagnoni) e il Santuario di Monte Grisa (1959, Antonio Guacci) riassumendo, attraverso edifici di marcata connotazione simbolica oltre che architettonica, la traiettoria dei primi quarant’anni del “secolo breve” a Trieste. Ma il principale valore aggiunto del volume è la quantità di dati e informazioni che vengono recuperate e concorrono a incrementare la conoscenza di un patrimonio architettonico a noi contemporaneo, spesso non riconducibile a forme di tutela ai sensi delle normative sui beni culturali, cosicché edifici di rilevante qualità possono essere trasformati con sprezzo delle buone pratiche (e del ridicolo). Le demolizioni sono eventi rari (anche se la Stazione autocorriere di Nordio è l’eccezione che contraddice la regola…) ma a correre i rischi maggiori sono rivestimenti e serramenti.

La dominante cultura del “cappotto” ha travolto e stravolto facciate con travertino e klinker e quando si è potuto evitare il peggio - come nel caso delle Case a torre Iacp in via Conti (1952, Roberto Costa e Dino Tamburini) - è stato in virtù di petizioni e appelli a livello nazionale. Il fascino delle mattonelle in color cotto che caratterizza i primi grattacieli triestini, da palazzo Aedes (1927, Arduino Berlam) ora di proprietà delle Generali, a Casa Opiglia Cernitz in largo Riborgo (1935, Nordio) e le Case alte in via Conti, viene adottato anche nei rivestimenti della chiesa della Beata Vergine delle Grazie in via Rossetti (1950, Ramiro Meng) e della scuola Morpurgo ai Campi Elisi (1949, Nordio). Diventa difficile immaginare la sostituzione con altri rivestimenti e anche se le mattonelle del Poliambulatorio ex Inam (1950, Romano Boico, Vittorio Frandoli) in via del Farneto sono in “cotto di Treja di color paglierino”, ci auguriamo che il loro destino non venga messo a rischio dalla “Hýbris” dell’efficientamento. Dispiace constatare che i serramenti originali di Casa Vriz in via san Francesco (1950, studio Valle) siano stati sostituiti da una cortina vetrata specchiante che ha falsato composizione e volumi di un edificio recensito su riviste internazionali, consegnandolo a una opaca mediocritas. La scheda dedicata al palazzo della Ras in piazza Oberdan documenta la sontuosa scelta dei rivestimenti – pietra di Orsera e travertino di Tivoli – e il pregio delle finiture, dalla pavimentazione dei portici ai serramenti alle opere d’arte nell’atrio con i mosaici e gli affreschi. Lo stato attuale documenta l’avvio di un processo che avrebbe portato alla sostituzione della candida pietra di Orsera con piastrelle di gres nero, interrotto dall’intervento di Italia Nostra, della Soprintendenza e infine dalla magistratura, non prima però che venissero distrutti dei serramenti, il leone di Ugo Carà fosse asportato per aprire una nuova finestra e il palazzo diventasse un simulacro vuoto e tangibile esempio negativo. Non ci resta che confidare che la nuova proprietà possa restituire alla città un edificio che costituisce un’eccellenza dell’architettura triestina. È auspicabile che la lettura del volume si diffonda presso studi di architettura e ingegneria, uffici pubblici dove si appongono visti e approvazioni, stimoli ricerche e studi su edifici contemporanei, poiché è soltanto attraverso la conoscenza della storia e dei documenti che si può intervenire in maniera consapevole sul patrimonio architettonico del XX secolo. —

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