La “Dolcissima abitudine” di Rosa prostituta in un’Italia senza destino

È il novembre del 2006. Piera Cavallero, in arte Rosa, ha sessantaquattro anni e sta andando a Chivasso, al funerale di Aldo, uno dei suoi più antichi e affezionati clienti. «Perché con la morte di Aldo finisce ufficialmente la sua lunga carriera, cinquant’anni di marchette». Al cimitero Rosa incontra la vedova, lei sa chi è, le due donne non fanno nulla per nascondere il reciproco disprezzo. Per quarantacinque anni, una vita intera, Aldo ha frequentato, amato e pagato Rosa. Ma alla fine Rosa decide di non partecipare alle esequie e se ne va. Come non era andata il giorno di Natale l’anno prima il giorno di Natale a casa di sua sorella Angelica, l’unica della famiglia - se così si può chiamare - che ha avuto la possibilità e l’opportunità di condurre una vita normale, di non fare la prostituta come la madre e come Rosa. Anche allora Rosa aveva deciso all’ultimo minuto di non andare dalla sorella, nonostante si fossero riavvicinate dopo anni di rancorosa lontananza. Perché ormai quella di Piera Cavallero è una vita per sottrazione, un’esistenza a togliere, destinata alla solitudine dopo tanti anni di lavoro senza un giorno di ferie: mezzo secolo di sesso a pagamento, abbastanza per essere riuscita a mettere da parte un ricco patrimonio fra immobili e depositi bancari. Più che una professione, per Rosa, fare la prostituta è stata una “Dolcissima abitudine”, come titola il romanzo di Alberto Schiavone (Guanda, pagg. 250, Euro 17,00).
“Bocca di rosa metteva l’amore sopra ogni cosa”, cantava De Andrè, e come nella canzone anche Rosa dovrà lottare tutta la vita contro una sorte che l’ha resa ricca ma che con lei non è stata generosa. A cominciare dal figlio che le è stato tolto nel 1959, venduto a Capramozza, uno dei suoi protettori, e a sua moglie Beatrice. Schiavone ripercorre la parabola di Rosa - ispirata a fatti reali - dal suo avvio al “mestiere” da parte della madre Renata, che spinge Rosa alla prostituzione ma non Angelica: «È una casa con tre donne i cui ogni giorno passano tanti uomini. Quando gira bene venti. Ma nessun uomo ci dorme, nessuno si fa preparare la cena. E la sera in cucina, davanti alla stufa d’inverno e vicino alla finestra d’estate, ci sono soltanto loro tre che mangiano attorno al tavolino».
E così che cresce Rosa, la cui bellezza - subito capisce - sarà la sua arma, la sua salvezza e la sua dannazione. Nell’arco di mezzo secolo vedremo Rosa seguire un’Italia che cambia, dagli anni del boom economico all’epoca del terrorismo e di Piazza Fontana fino a Tangentopoli, a Berlusconi («Niente di nuovo. Se non che il vizio italiano si scopre regola, le barzellette sozze vocabolario») e all’attuale era dei social. Sempre con i clienti, tanti clienti, di ogni età e di ogni tipo che vediamo sfilare pagina dopo pagina in un percorso dove «le storie delle puttane si somigliano tutte, eppure ognuna è la peggiore».
Ma Rosa ha ancora uno scopo: suo figlio. Lui sa di essere stato adottato, ma crede che la madre naturale sia morta dopo la sua nascita. Nel cimitero c’è un tomba falsa che la ricorda, opera dell’intraprendente Capramozza per togliersi ogni imbarazzo. Negli anni Rosa segue suo figlio, da lontano. A volte lo pedina, lo spia. Acquista un appartamento nello stesso stabile dove vive lui. È un uomo solo, che si porta dentro antiche fragilità. Per lui Rosa è solo una vicina di casa un po’ stramba. «Non ho mai avuto sogni da inseguire, da far avverare - pensa Rosa ormai anziana rivolta al figlio -. È vita questa? Tu almeno non diventare un mio incubo. Ho attraversato tanto tempo per arrivare qui». Spietata e dolce allo stesso tempo, venata di eros, la parabola di Rosa raccontata da Schiavone si fa metafora di un Paese alla continua ricerca di una pace che non trova, di un destino, che non si compie. —
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