La città interiore di Covacich un non luogo dove ritrovarsi
di ALESSANDRO MEZZENA LONA
Chi cerca Mauro Covacich dentro i suoi libri, quasi sempre finisce per smarrire l’orizzonte. Perché ogni storia elaborata dallo scrittore triestino assomiglia a uno di quegli specchi ingannevoli. A uno di quegli oggetti stregati che non riflettono l’immagine concreta piazzata davanti a loro, ma una visione “altra”. Una proiezione spiazzante. Che potrebbe essere, o essere stata vera, reale. Ma anche no.
E allora non stupisce ritrovare sulla copertina del suo nuovo libro una foto famosa: “Sweetheart” di Jane Long. Dove l’artista australiana piazza davanti a uno specchio un bambino e una bambina. E lascia vedere l’inquietante riflesso, alle loro spalle, di un ragazzo e una ragazza già grandi. Vestiti esattamente come i due piccoli. Eppure diversi. Trasformati in qualcos’altro.
Fin dalle prime pagine, “La città interiore” di Mauro Covacich, che arriva oggi in libreria pubblicato da La nave di Teseo (pagg. 233, euro 17), fa capire al lettore che dovrà maneggiare con grande cura questo libro. Perché assomiglia a un romanzo, ma non lo è. Potrebbe sembrare un’autobiografia, oppure un saggio cultural-letterario con grandi digressioni personali. E se anche, alla fine, si decidesse di archiviarlo sullo scaffale dei tanti testi che hanno provato a raccontare l’anima segreta di Trieste, sarebbe una scelta discutibile.
Certo è che Covacich, da grande scrittore qual è, sa fare di questa “Città interiore” una sorta di diapason. Che detta la giusta sintonia dello scrittore con la materia magmatica dei ricordi, spesso dolorosa ma anche piena di luce. Che lo porta a intersecare i suoi passi con quelli di grandi testimoni del tempo. Senza dimenticare il dolore di una terra dilaniata dai nazionalismi, straziata da due guerre mondiali, divisa da speculazione politiche che hanno armato i suoi popoli l’uno contro l’altro.
Covacich parte da un’immagine forte, intrisa di emozione. Quella del bambino che attraversa una Trieste ferita dalla Seconda guerra mondiale reggendo in equilibrio sulla testa una sedia. Sa dove andare, il piccolo triestino che porta il suo stesso cognome, Covacich, perché è suo nonno. In quel 4 aprile del 1945, a fare da scenario al suo cammino ci sono le macerie di una Trieste duramente colpita dai bombardamenti. «È diretto al Borgo Teresiano - scrive -, vicino alla chiesa con la cupola blu, vicino al Canale, vicino alle bancarelle di Ponterosso. Sa dov’è. A sette anni si muove in città come un migratore lungo le rotte celesti. Non conosce i nomi delle vie, segue riferimenti emotivi, talvolta geometrici, i colori delle insegne, le fughe di luce verso la marina, i volumi dei pieni e dei vuoti tra i palazzi, le chiome degli alberi. Ha una bussola interna, l’infallibile magnetismo di un uccellino cresciuto per strada».
Ma il palcoscenico cambia in fretta. Adesso, sotto i riflettori della scrittura c’è un altro bambino. Lo scrittore stesso. Sta appollaiato sul ciglione dell’altipiano carsico. E da quella balconata scruta, assieme al padre, l’immenso rogo che sta trasformando l’oleodotto della zona industriale in un inferno di fiamme e fumo. Ha sette anni, in quell’agosto del 1972, non sa nulla di Settembre nero e dei misteriosi perché dell’attacco terroristico in quell’angolo di Italia stretto d’assedio da un confine che toglie il respiro come un nodo scorsoio.
Da lì, da quelle due istantanee che si rifiutano di dormire nello sgabuzzino dei ricordi, prende forma il viaggio nella “Città interiore”. Un percorso che sfalsa i piani temporali. Che detta il cammino del bambino, futuro scrittore, in una città come Trieste. Cresciuta a letteratura e incomprensioni. Grandi sogni, ma anche odio merschino. E allora, dentro la lanterna magica della memoria si ritrova la figura di Jan Morris, la scrittrice che forse più di altri ha capito la vera essenza di Trieste, il «non luogo». E che in città era capitata, quando ancora si chiamava James e non aveva scelto di essere donna, con il Nono Reggimento dei Lancieri di Sua Maestà Britannica. E poi si riscopre un grande musicista come Antonio Bibalo, considerato tra i massimi compositori del ’900 dai più quotati melomani. Troppo a lungo snobbato, però, proprio dalla sua Trieste, che forse non gli ha mai perdonato l’ingenua voglia di affermare la libertà dell’artista sempre e comunque. Tanto che Covacich immagina che, nel 2001, gli sia stato tributato un sacrosanto risarcimento con l’assegnazione del San Giusto d’oro. Mentre, nella realtà, gli venne consegnato molto più modestamente il Sigillo trecentesco.
E mentre scorrono le immagini di nonno Covacich, che vaga nella tormenta di neve per non chiedere un passaggio al figlio, e della nonna che facendo la parrucchiera assicurava un certo benessere alla famiglia, lo scrittore riporta in vita la figura di Pino Robusti. Lo studente arrestato in piazza Oberdan dai nazisti, e poi finito alla Risiera, che trovò in quell’assurdo destino il coraggio di una dignità da uomo vero. E si ricorda di Pier Antonio Quarantotti Gambini, che dopo aver difeso la Libreria di Umberto Saba dalle squadracce fasciste venne cacciato dalla Biblioteca Civica di Trieste al tempo dell’occupazione titina. E sorride al pensiero che lo scrittore Italo Svevo, discutendo di affari con il poeta Umberto Saba, lo minacciasse di schiacciarlo «come un pulisin». Perché la vita lo aveva costretto a diventare una sorta di capitano d’industria.
Interrogando le ombre e scrutando dentro di sé, con la calda partecipazione del narratore e l’imparziale sguardo del saggista, Covacich si lascia sedurre dal richiamo del labirinto Trieste. Per capire, tra tante voci, quanto forte, sfaccettato, inquieto, sia il suo legame con quel “non luogo”. Fatto della stessa materia della letteratura.
alemezlo
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